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La nuova preziosa diversità: l’osservazione dell’autismo nell’intervento educativo

Indice

Introduzione

Capitolo 1: La preziosa diversità: l’autismo

  1. Definizione e storia dell’autismo
  2. L’evoluzione dei criteri diagnostici dalle origini ai giorni nostri
  3. L’efficacia della diagnosi precoce nel disturbo dello Spettro Autistico
  4. L’evoluzione della ricerca sui fattori eziologici

Capitolo 2: L’osservazione come lente e strumento per conoscere ciò che ci circonda

  1. Cosa si intende per osservazione
  2. Le tipologie d’osservazione
  3. Pianificare l’osservazione: chi osservare
    1. Che cosa osservare
    2. La misurazione del comportamento e i mezzi utili all’osservazione
  4. Il senso dell’osservazione e le scelte operative preliminari
  5. Osservazione e autismo un legame utile e necessario

Capitolo 3: Come intervenire con i soggetti autistici: i modelli educativi a confronto

  1. Il modello comportamentale “ABA” Applied Behavior Analysis
  2. L’assessment funzionale e le tecniche di intervento ABA
  3. Il modello ABA e la riduzione dei comportamenti problema
  4. Il DDT come metodo d’apprendimento ad obiettivi
  5. Il programma TEACCH come modello di intervento ad indirizzo evolutivo
  6. Come aiutare i soggetti autistici nella comunicazione verbale
  7. Il sistema multidisciplinare SCERTS- Social Communication, Emotional Regulation Transactonal Support

Conclusioni

Bibliografia

INDICE

Introduzione 

Questo lavoro di tesi nasce dalla voglia di approfondire e far conoscere ancor di più il mondo dell’autismo, un mondo dove ancora oggi si cela un aspetto di diffidenza, paura e mancata conoscenza.

Sarà un viaggio ricco di particolari e di analisi che renderà la tematica accessibile a tutti, permettendo una visione più ampia e consapevole del disturbo.

Spesso i bambini autistici sono vittime di molti stereotipi: che siano super-intelligenti, o al contrario che non siano capaci di capire niente, che siano fuori dal mondo tanto da essere chiamati “i bambini della Luna” (Borghese, 2015), che possono essere violenti, che non dovrebbero frequentare le scuole pubbliche. Un sacco di pregiudizi, cliché e inesattezze come quelli elencati fanno sì che questi ragazzi e le famiglie siano isolati e spesso non compresi dal resto della società. Per questo motivo, è stata istituita la Giornata Mondiale della consapevolezza dell’autismo, al fine di sensibilizzare sulla sindrome che coglie circa quattro bambini su mille in Italia e di permettere a queste persone di integrarsi nell’ambiente e nella società che ci circonda.

L’autismo, dunque, non è una malattia ma un disturbo grave dello sviluppo che si manifesta sotto vari aspetti e, in generale, prima dei tre anni (periodo in cui il bambino sviluppa le fondamentali potenzialità di apprendimento e di contatto con la realtà che lo circonda). Esso ha la difficoltà a entrare nel mondo degli altri, nel mondo delle rappresentazioni condivise, che porta a non condividere le emozioni, a non esprimere intenti e a non impegnarsi in interazioni sociali reciproche (Militerni, 2004).

Da ciò si evince, come può essere difficile visto la complessità del disturbo, la strutturazione di percorsi educativi per i soggetti con autismo. A complicare questa situazione vi è la constatazione che, in effetti, vivere un’«esperienza autistica» (intesa come dimensione che ciascuna persona può sperimentare quando si mette in relazione con una persona con autismo) permette all’operatore di guardarsi allo specchio, cogliendo dimensioni intime personali come il proprio “autismo” e narcisismo, che spesso l’essere umano dimentica di avere e di esercitare quando entra in relazione con l’altro. Ciò che produce questa esperienza nel professionista è così forte da un punto di vista emotivo che egli sperimenta la propria incompiutezza e con essa il dolore di sentirsi imperfetto.

Per tale ragione, questo elaborato nella disamina dei vari capitoli, si auspica di delineare un percorso che evidenzi il bambino nella sua unicità e specialità tenendo sempre presente che pur vivendo nel loro “mondo”, sono capaci di entrare in sintonia con l’educatore anche solo con un piccolo sguardo.

Pertanto nel primo capitolo verranno presi in esame i fondamenti storici della ricerca del disturbo, con riferimento allo sviluppo del concetto diagnostico, l’importanza della diagnosi precoce, l’eziologia e l’epidemiologia, evidenziando tutti gli elementi che possono essere identificati come una possibile causa, cercando di esaminare tutte le convinzioni, più o meno accreditate rispetto all’autismo.

Nel secondo capitolo verrà sottolineata l’importanza dell’osservazione come metodo di ricerca qualitativa che rappresenta l’azione più importante di ogni sistema di descrizione, di registrazione, di analisi, di valutazione o interpretazione di un evento. Essa, ci permette di conoscere, acquisendo una maggiore consapevolezza dei comportamenti, atteggiamenti e convinzioni dei soggetti presi in esame, configurandosi quindi come un processo cognitivo, in quanto non solo orientata alla lettura di un fenomeno/situazione ma soprattutto alla sua comprensione.

Nell’ultimo capitolo invece, verranno presentati i modelli di intervento educativi specificamente orientati al trattamento del disturbo come l’Evidence Based maggiormente accreditato secondo la prospettiva EBE (Schreibman, 2005; Anagnostou et al., 2014; Cottini & Morganti, 2015). Verranno anche illustrati i modelli del Discrete Trial Training; il modello Teacch e il sistema Scerts, per dare una panoramica di come i vari modelli insieme all’aiuto dell’educatore, possano aiutare e cambiare la vita dei bambini autistici.

Detto ciò, l’intervento precoce è prezioso, ma non è mai troppo tardi per migliorare la qualità della vita dei soggetti autistici attraverso una migliore comprensione e una più efficace risposta alle loro esigenze. Non si pretende di offrire una “cura miracolosa” per l’autismo, ma vi sono prove per affermare che l’educazione può essere efficace non solo al fine di migliorare i sintomi, ma anche per attenuare alcune delle maggiori difficoltà di apprendimento ad esso connesso.

INDICE

Capitolo 1: La preziosa diversità: l’autismo

Definizione e storia dell’autismo

I disturbi dello Spettro autistico conosciuto anche come “Autism Spectrum Disorders, ASD”, rappresentano una delle disabilità evolutive più complesse alle quali i sistemi formativi sono tenuti sempre più a fornire risposte esplicative e chiarificanti.

Al giorno oggi, i repertori diagnostici internazionali sono stati oggetto di significativi cambiamenti per il riconoscimento della diagnosi. Infatti, all’interno del DSM-5 cioè del Manuale Diagnostico e Statistico del Disturbi Mentali (APA, 2014), l’autismo viene annoverato all’interno della categoria appositamente creata dei “Disturbi dello Spettro Autistico”. Esso, coinvolge prevalentemente tre aree: il linguaggio e la comunicazione, l’interazione sociale e gli interessi ristretti e stereotipati. A causa della sua complessità e sintomatologia, l’autismo viene chiamato per l’appunto disturbo dello spettro autistico (ASD), proprio perché coinvolge un ampio spettro di sintomi, abilità e livelli di disabilità, che si differenziano per livello di compromissione dell’autonomia della vita quotidiana (APA,2014).

I bambini con autismo, riscontrano gravi difficoltà a comunicare ed esprimersi, a comprendere il pensiero altrui cioè (la capacità di mentalizzare), presentando una gestualità e dei movimenti facciali molto spesso ripetitivi e stereotipati. Si è riscontrato che, essi siano soggetti ad iper sensibilizzazione nei confronti dei rumori e suoni, presentando comportamenti specifici come il dondolio o il battito delle mani con una costante frequenza, possono manifestare delle risposte insolite alle persone, mostrare attaccamenti agli oggetti, resistenza al cambiamento nella loro routine, o comportamento aggressivo o autolesionista e a volte possono sembrare non notare persone, oggetti o attività nell’ambiente circostante. (Frith, 2012).

Esaminando la definizione riportata dalla Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza, l’Autismo sarebbe: “una sindrome comportamentale causata da un disordine dello sviluppo biologicamente determinato, con esordio nei primi tre anni di vita. Le aree prevalentemente interessate sono quelle relative all’interazione sociale, all’abilità di comunicare idee e sentimenti e alla capacità di stabilire relazioni con gli altri”. Esso quindi, si configurerebbe come una disabilità permanente, che accompagna il soggetto per tutto il corso della vita, anche se le caratteristiche del deficit sociale assumerebbero un’espressività variabile nel tempo (SINPIA, 2005).

Ma facendo un passo indietro, nella storia dell’evoluzione del disturbo, i primi contributi teorici furono nel 1911 con Eugen Bleuler, che descrisse con il termine “autismo” la chiusura in sé stessi dei pazienti schizofrenici ed osservò, inoltre, che questi bambini non avessero alcun contatto con il mondo esterno e vivessero al di fuori della realtà, mascherati dalla loro vita interiore (Bleuler, 2013).

In seguito, le prime descrizioni dei sintomi autistici furono apportate da Lorna Wing, la quale, riscontrò nella leggenda popolare Inglese “Il Bambino fatato” risalenti al XVIII secolo che, secondo la leggenda, le fate rapirebbero alle volte un neonato per sostituirlo con un bambino “fatato” caratterizzato da un buon aspetto fisico, ma dotato di un alone di impenetrabilità che lo differenzi dagli altri. Questo aspetto della storia sociale del disturbo, evidenzia come l’immaginario popolare avesse già riconosciuto dei peculiari sintomi ad esso riconducibili, come quelli relativi alla carenza delle produzioni linguistiche e alle alterazioni della socialità. (Borghese, 2015).

Ma i veri pionieri furono Leo Kanner e Hans Asperger, che tramite i loro studi, affermarono che, fin dalla nascita, ci fosse una problematica che potesse dare origine a particolari problemi, così decisero di porre al centro delle loro attività l’osservazione diretta sui bambini. Infatti, sulla base di tali osservazioni, Kanner nel 1943 pubblicò l’articolo “Disturbi autistici del contatto affettivo”, nel quale descrisse le osservazioni di undici casi dove riscontrò comportamenti non convenevoli e differenti rispetto ad altri bambini osservati (Bischiecchi, 2005).

Dalle osservazioni emerse che, i bambini non fossero soliti dimostrare interesse nei confronti degli altri e del mondo, mostrando anche una mancanza di affetto nei confronti dei genitori, indifferenza nei confronti degli altri e dei loro richiami, passività, incoerenza nel linguaggio, difficoltà ad usare i pronomi ed apparente sordità. Questo, venne osservato anche nei successivi dieci casi, dove altre osservazioni, portarono ulteriori riscontri come, il rifiuto d’essere abbracciati, toccati, sfiorati, anche dalla figura materna, difficoltà del linguaggio e nella modifica del significato delle parole e il senso di solitudine. Notò inoltre, che essi tendessero a conservare in modo rigido i loro comportamenti manifestando disperazione ogni qualvolta venissero disconfermati, mostrando difficoltà nella simbolizzazione, distoglimento dello sguardo anche quando i discorsi erano evidentemente a loro rivolti. Per tali ragioni, Kanner descrisse il cosiddetto “isolamento autistico”, visto come incapacità di rapportarsi con la gente e con le situazioni della vita quotidiana, preferendo instaurare relazioni con gli oggetti e manifestando espressioni verbali caratterizzate da un’eccessiva ripetitività (Bettelheim, 2001).

Successivamente, invece Hans Asperger, partendo da delle osservazioni effettuate su dei ragazzi, introdusse il concetto disturbo autistico della personalità nell’infanzia o Disturbo di Asperger, descrivendo i sintomi e le caratteristiche più rilevanti come:

  • deficit della comunicazione non verbale: i bambini mostrarono scarsità di gesti associati alle espressioni e un’incapacità di modulare la voce in modo adeguato ai vari contesti;
  • idiosincrasie nella comunicazione verbale: nessi verbali contorti e poco comprensibili, difficoltà nel trasmettere un pensiero e incapacità di introdurre nuovi argomenti all’interno di una discussione;
  • adattamento sociale e interessi speciali: i bambini si interessarono a un numero limitato di oggetti, bloccando l’acquisizione delle capacità dell’autonomia personale;
  • intellettualizzazione degli affetti: poca empatia, mancata comprensione dell’affettività altrui;
  • goffaggine e scarsa consapevolezza del proprio corpo: poca scioltezza e molta goffaggine, difficoltà di coordinazione motoria e nelle attività sportive;
  • problemi di condotta: presentano comportamenti particolarmente l’aggressivi;
  • insorgenza: la diagnosi non può essere effettuata prima del terzo anno di vita, perché non sarebbero ancora definite le abilità comunicative e linguistiche;
  • familiarità e sesso: possibilità di individuare all’interno della famiglia comorbidità genetiche con particolare rilevanza al sesso maschile (Cohen, Volkmar, 2004).

Un altro studioso che contribuì alla distinzione tra schizofrenia e autismo infantile fu Michael Rutter, che con i lavori del 1978, designò i sintomi che a suo parere potessero essere riscontrati in tutti i bambini autistici. Egli riscontrò manifestazioni della sindrome prima del trentesimo mese di vita; profondo e generalizzato fallimento nello sviluppare le relazioni sociali; il deficit nelle capacità prelinguistiche e ritardo nell’acquisizione del linguaggio, seguito da scarsa comprensione, ecolalia e inversione di pronomi e le condotte compulsive ritualistiche (Bionda, 1987).

Invece nel 1976, lo psicologo Bettelheim, all’interno del testo “La fortezza vuota”, decise di sottolineare come l’autismo non avesse alla base un problema organico, ma fosse caratterizzato dalla presenza di una madre non completamente dedita al suo bambino (Crispiani,2001). Per tale motivo, coniò il termine “madre frigorifero”, per definire quelle madri che, nel rapporto con i figli, mancassero di contatto fisico e affetto, indicando tali condizioni come indispensabili per poter rilevare la patologia. Bettelheim arrivò a proporre dunque l’autismo come meccanismo di difesa che il bambino mettesse in atto in risposta al rifiuto materno, manifestando sofferenza, ansia e malessere, provocando nel bambino un senso di ritiro, fino a recludersi in quella che Bettelheim definì una “fortezza vuota”. Con lui così, si sviluppò il pensiero secondo il quale i genitori e in particolare la madre, siano i principali responsabili del disturbo dei figli, anche se successivamente tale principio non fu mai identificato come unica causa della patologia (Bettelheim, 2001).

Sul finire degli anni ’80 invece, un’altra studiosa che si propose allo scenario teorico dell’autismo, fu Uta Frith, che basò la teoria sulla prospettiva evolutiva. Attraverso tale teoria, inserì il concetto di “teoria della mente” dove secondo l’autrice, l’autismo verrebbe causato dall’assenza di un corretto sviluppo della teoria della mente, cioè della mancata capacità di focalizzare l’attenzione sulle persone e sul modo di pensare a sé stessi e agli altri. Dal punto di vista cognitivo, il bambino autistico presenterebbe l’incapacità di cogliere stimoli; di elaborare l’esperienza e difficoltà di accedere dal particolare al generale.

Inoltre, dagli studi effettuati da Lorna Wing e Judith Gould, si cercò di capire con quale frequenza si manifestassero i sintomi della malattia. Così, vennero sottoposti ad indagine 173 bambini, in quanto, ognuno di loro durante lo studio, mostrò uno dei tre comportamenti tipici dell’autismo cioè, un grave disturbo sociale, della comunicazione e un deficit nelle attività immaginative, sostituite da comportamenti ripetitivi. Lungo tutto l’evolversi di tale studio, si dimostrò che, prima dei 20 mesi, i bambini non potessero essere in grado di dimostrare un certo livello di sviluppo e di abilità e il loro reale potenziale. Per tale ragione, le due studiose decisero di dividere i bambini in due gruppi, uno con chi avesse meno di 20 mesi e l’altro composto da chi ne avesse di più. La scoperta fu, che tutti i bambini con disturbo sociale, presentarono un disturbo in ciascuna delle tre caratteristiche in esame; nessuno dei bambini socievoli mostrò le altre due caratteristiche. Dato che queste tre caratteristiche si presentarono insieme, fu possibile affermare l’esistenza di una triade dei disturbi, e non dunque la presenza di tre disturbi distinti. Infatti, Wing e i suoi collaboratori, osservarono l’esistenza di tre tipologie distinte di bambini affetti da autismo: i riservati, simili ai bambini descritti da Kanner, i passivi nei confronti dell’ambiente che li circonda e gli strani, socialmente attivi ma con comportamenti inconsueti (Frith, 2012). Nello studio effettuato dalle due studiose, si poté dunque dedurre che, la triade dei disturbi si manifesterebbe in ogni bambino che ricevesse diagnosi di autismo. Questa svolta nell’evoluzione della sindrome d’autismo fu un passo avanti importante perché da qui verranno presi in considerazione quelli che saranno poi definiti i veri e propri criteri diagnostici.

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L’evoluzione dei criteri diagnostici dalle origini ai giorni nostri

Al fine di rendere chiaro e ben delineato l’evoluzione della patologia, è indispensabile esemplificare lo sviluppo dei criteri diagnostici, i quali rappresentano elementi delle tappe evolutive della ricerca sul disturbo.

Dal punto di vista storico evolutivo del disturbo, troviamo le sue origini all’interno del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali già nella seconda edizione del 1968 (DSM-II), dove il disturbo veniva riconosciuto inizialmente come Schizofrenia Infantile, dove si immaginasse il successivo passaggio dalle forme autistiche infantili a forme schizofreniche nella prima età adulta (Volkmar, Klin & Cohen, 2008). Ma tale argomentazione, verrà criticata da Rutter, il quale ritenne che nell’Autismo Infantile non vi fossero presenti deliri e allucinazioni tipici invece dello spettro schizofrenico. Questo fu la nuova chiave di differenziazione tra i disturbi autistici e i disturbi schizofrenici, tanto che questa novità, relativo alla presenza/assenza di deliri e allucinazioni rappresenta ancora tutt’oggi il principale indicatore per la diagnosi differenziale dei Disturbi dello Spettro Autistico rispetto a quelli della Schizofrenia (APA, 2014).

La critica di Rutter, fu determinante per la separazione dei disturbi autistici dagli schizofrenici, tanto da segnarne la separazione all’interno del DSM -III (APA, 1980), della categoria autonoma dei Disturbi Generalizzati dello Sviluppo a Insorgenza Infantile. Esso introdusse infatti, i criteri corrispondenti alla diagnosi del Disturbo Generalizzato dello Sviluppo, rappresentati da un esordio entro i 30 mesi; alterazioni dello sviluppo sociale con compromissione della capacità di gioco cooperativo; marcato ritardo dello sviluppo linguistico; resistenza al cambiamento con attività ludiche e motorie stereotipizzate (Cornoldi, Sanavio, 2001). Ma l’introduzione di queste categorie nel repertorio diagnostico fu preceduta dallo studio della Wing, la quale introdusse il concetto di Triade Autistica o Triade cognitiva dell’Autismo, fondata sui tre deficit principali quali l’interazione, la comunicazione e l’immaginazione sociale, tutt’oggi utilizzati come criteri diagnostici (Wing, 1997). Tra i deficit principali sarebbero riscontrabili nell’interazione sociale insieme alla compromissione di tutti gli aspetti della vita del bambino. Il secondo fattore della triade ipotizzata sottolineerebbe la compromissione dello sviluppo linguistico e comunicativo dove, i soggetti non manifesterebbero uno sviluppo del linguaggio verbale come un primario strumento comunicativo L’ultima componente della Triade, sarebbe caratterizzata dai comportamenti stereotipizzati e ripetitivi e dalla dedizione pervasiva a interessi anomali. Questi soggetti, manifesterebbero interessi atipici e difficoltà di distaccamento dagli oggetti a cui si interessino in maniera ossessiva (Ganz, 2015).

 Un’ulteriore svolta nello sviluppo dei criteri fu rappresentata dal DSM- III-R (1987), nel quale i criteri diagnostici furono ulteriormente ampliati, articolati su tre aree divise in 5 criteri, comportando un aumento della complessità della diagnosi. Per tali motivi, l’edizione successiva DSM-IV (APA, 1994) fu caratterizzata da una riduzione dei criteri e da una articolazione su tre aree relative alla compromissione della qualità della comunicazione, dell’interazione sociale e da una riduzione del repertorio di interessi e comportamenti. Questa nuova revisione, introdusse l’inserimento della macrocategoria dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo Infantile, comprendendo le sottocategorie autonome del Disturbo Autistico, del Disturbo di Asperger, della Sindrome di Rett, del Disturbo Disintegrativo e dei Disturbi Pervasivi Non Altrimenti Specificati (NAS) (APA,1994).

L’inserimento del Disturbo di Asperger come categoria diagnostica, fu un punto di svolta, tant’è che Schopler (Schopler, Mesibov, 1998), ritenette che il Disturbo di Asperger riflettesse le caratteristiche dell’Autismo con funzionalità cognitiva elevata; così che la diagnosi fosse facilitata dalla collocazione del soggetto su un continuum dove, a un’estremità si troverebbero le forme a bassa funzionalità (Low Functioning Autism), mentre all’estremità opposta le forme di elevata funzionalità cognitiva (High Functioning Autism). Tale concezione portò la comunità scientifica, ha optato per l’eliminazione nell’attuale edizione del DSM-5, della categoria del Disturbo di Asperger, ritenendo che le tipologie autistiche siano rappresentate dall’introduzione della nuova macrocategoria dei Disturbi dello Spettro Autistico (APA, 2014). In questa nuova macrocategoria, viene presa in considerazione la compromissione della funzionalità cognitiva e delle competenze sociali determinata dalla funzione supportiva dell’ambiente. Tale riconsiderazione, rappresenterebbe un avvicinamento alla prospettiva biopsicosociale della Organizzazione Mondiale della Sanità, che considererebbe il ruolo dell’ambiente come un fattore di potenziamento o depotenziamento in grado di favorire l’adattamento o di mantenere la condizione di disabilità (WHO, 2001).

I nuovi criteri diagnostici si incentrano sui deficit della comunicazione e dell’interazione sociale e dai comportamenti e interessi limitati e ripetitivi. Il primo criterio è fondato sul deficit della comunicazione e dell’interazione sociale, specificato da quattro sottocriteri:

  1. Approccio sociale anormale.
  2. Ridotto interesse nella condivisione degli interessi e delle emozioni.
  3. Deficit nei comportamenti comunicativi non verbali usati per l’interazione sociale, con anormalità nel contatto oculare e nel linguaggio del corpo, deficit nella comprensione e della comunicazione non verbale, assenza di espressività facciale e gestualità.
  4. Deficit nello sviluppo e mantenimento di relazioni appropriate, con difficoltà di regolazione del comportamento rispetto ai diversi contesti sociali, difficoltà nella condivisione del gioco immaginativo e nel fare amicizie, apparente mancanza di interesse verso le persone (APA,2014).

Il secondo criterio invece, si basa sulla restrizione degli interessi e dei comportamenti, che descrivono la concentrazione su interessi ristretti, le stereotipizzazioni del linguaggio e dei comportamenti motori, specificati da quattro sottocriteri:

  1. Linguaggio, movimenti motori o uso di oggetti stereotipato o ripetitivo. Presenza di stereotipie motorie, ecolalia o uso ripetitivo di oggetti.
  2. Aderenza alla routine con eccessiva resistenza ai cambiamenti. Fissazione in interessi ristretti con intensità anormale. Eccessivo attaccamento o preoccupazione per oggetti inusuali.
  3. Interessi anomali con pervasiva manipolazione degli oggetti e attrazione verso luci o oggetti rotanti.
  4. Alterazioni della reattività agli stimoli sensoriali, con apparente indifferenza al caldo, al freddo e al dolore (APA, 2014).

I criteri del DSM-5 prevedono, la quantificazione del supporto ambientale, in riferimento alle competenze della partecipazione sociale del soggetto, infatti, tale quantificazione, prevede la suddivisione di tre livelli di intensità di supporto in: rilevante, moderato e lieve.

Livello 1 supporto lieve alla comunicazione sociale: senza supporto i deficit nella comunicazione causerebbero limitazioni poco visibili all’inizio delle interazioni sociali, ridotto interesse nell’interazione sociale, interessi ristretti e comportamenti ripetitivi. I comportamenti ripetitivi causano un’interferenza in uno o più contesti e se interrotti compaiono reazioni di resistenza.

Livello 2 supporto moderato alla comunicazione sociale: deficit marcati nella comunicazione anche se si ha una fascia media di gravità, iniziativa sociale limitata, interessi ristretti e comportamenti ripetitivi. Le preoccupazioni o i comportamenti ripetitivi interferiscono con l’adattamento in diversi contesti e se interrotti manifestano reazioni di stress.

Livello 3 supporto rilevante alla comunicazione sociale: questi deficit causano una grave limitazione al funzionamento globale, minima risposta all’iniziativa altrui, interessi ristretti e comportamenti ripetitivi, con reazioni spesso aggressive (APA, 2014).

Oltre alla disamina del DSM, a livello internazionale la trattazione dalla sindrome autistica, viene annoverata anche all’interno dell’International Classification of Diseases– ICD 10, venendo raggruppata insieme alla Sindrome di Asperger, alla Sindrome di Rett, in una singola sezione “Disturbi pervasivi dello Sviluppo”, proprio come nel DSM-IV.  Ma con l’uscita nel maggio 2018 dell’ICD-11, si riscontrano delle similitudini con i criteri del DSM-5, con la creazione di una nuova sezione dedicata al disturbo dello spettro autistico. L’ICD-11 si differenzia tuttavia dal DSM-5 in diversi aspetti, proprio perché invece di richiedere un numero fisso o una combinazione di funzioni per una diagnosi, esso elenca le caratteristiche identificative, consentendo ai clinici di decidere se i comportamenti di una persona coincidono con i criteri diagnostici. Poiché l’ICD, stabilisce anche criteri più ampi e meno culturalmente specifici rispetto al DSM-5, pone anche una distinzione tra autismo con e senza disabilità intellettiva, mettendo in luce il fatto che molti individui talvolta possono mascherare i loro tratti di autismo (Volkmar, 2020).

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L’efficacia della diagnosi precoce nel disturbo dello spettro Autistico

Oggi si è arrivati al concetto di spettro autistico, dopo un lungo percorso di ricerca, e la possibilità di poter effettuare precocemente la diagnosi diviene indispensabile per il trattamento tempestivo di tale disturbo, permettendo la modifica delle traiettorie evolutive del bambino attraverso un intervento celere e prognostico.

Al giorno d’oggi, alla luce dell’evoluzione dei criteri diagnostici, per effettuare diagnosi dello spettro autistico, si deve attendere il compimento dei tre anni di vita del bambino. Dal momento che la diagnosi avviene quando il paziente soddisfa tutti i criteri diagnostici esistenti, è importante evidenziare come, spesso sia riscontrabile anche in età adulta. Solitamente però, alcuni elementi e atteggiamenti insoliti possono essere riscontrati anche prima dei tre anni e proprio per accelerare tale processo diagnostico, le ricerche sul disturbo hanno cercato di mettere in evidenza alcune informazioni fondamentali per quanto riguarda l’età e la modalità di insorgenza dei sintomi (Vivanti, 2010). Secondo tali studi, si potrebbe evidenziare che i sintomi dell’autismo, sarebbero già riscontrabili nel primo anno di vita, i quali comporterebbero un deficitario sviluppo evolutivo del bambino; oppure che il bambino potrebbe maturare un normale sviluppo fino verso i 18-24 mesi, per poi presentare una regressione, spesso associata alla perdita di abilità già acquisite, definito appunto come esordio “regressivo” (Simoson, 1994). Nei casi in cui vengano perse tali abilità, è possibile che si manifesti un graduale deterioramento che potrebbe essere un campanello di allarme per identificare il disturbo (Peeters, 1998). 

Da ricerche effettuate, la diagnosi di autismo si potrebbe iniziare a delineare o comunque destare dei sospetti, anche da descrizioni relazionali ed osservazioni del comportamento infantile. Come precedentemente evidenziato, per la diagnosi si deve attendere il compimento dei 3 anni, ma sono state riscontrati degli indicatori precoci già intorno ai 15-18 mesi, che segnalerebbero le alterazioni nello sviluppo, che comporterebbero maggiori osservazioni e interventi intensivi, come strumenti che far fronte alle complicazioni e alterazioni del neuro sviluppo. Ad esempio molte ricerche, hanno evidenziato come il pianto nei bambini autistici, presenti delle caratteristiche dissimili rispetto ai bambini con sviluppo tipico, la differenza si manifesterebbe nella durata ridotta e nella mancanza di picchi di frequenza uniformi. Tale pianto, determinerebbe nell’adulto una risposta cerebrale diversa rispetto al pianto dei bambini con sviluppo tipico, evidenziando una maggiore attivazione della corteccia uditiva primaria nella discriminazione della voce. Oltre il pianto, sono stati riscontrati nel tempo altri possibili indicatori di rischio, ma la maggior parte degli strumenti utilizzati per la valutazione si soffermerebbero alle indagini che si possano articolare intorno al secondo anno di vita (Rizzolatti & Sinigaglia, 2006).

Per facilitare la diagnosi ad esempio, tra gli strumenti più utilizzati durante il secondo anno di vita viene utilizzata la Checklist for Autism in Toddlers (CHAT, Baron-Cohen et al., 1992), un test di screening per bambini di 18 mesi, dove vengono previste 9 domande sul comportamento del bambino fatte ai genitori con l’osservazione diretta di 5 comportamenti target: contatto oculare, attenzione congiunta, gioco di finzione, indicazione e capacità di costruire una torre con i cubetti. Un altro strumento è la Quantitative Checklist for Autism in Toddlers (QCHAT, Allison et al., 2008). Composta da un questionario con 25 item proposto ai genitori, in cui viene chiesto di quantificare quante volte il loro bambino presenta un comportamento particolare su una scala di 5 punti (0-4).

Questi due strumenti, sono solo alcuni dei tanti mezzi che oggi si hanno a disposizione per effettuare la diagnosi precoce, anche se essendo un disturbo abbastanza complesso e con svariate sfaccettature, la ricerca sta cercando sempre più di creare e perfezionare strumenti attendibili che possano facilitare la diagnosi permettendo il repentino intervento di figure specializzate d’aiuto per il bambino.

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L’evoluzione della ricerca sui fattori eziologici.

Nonostante i grandi passi avanti effettuati da tutti gli studiosi e dall’intera comunità scientifica, al giorno d’oggi non sono state identificate le cause dell’insorgenza del disturbo autistico, ma la comunità scientifica internazionale tende a sottolineare l’incidenza di una multifattorialità di caratteristiche che ne comporterebbero l’insorgenza. Tale multifattorialità, sarebbe riscontrabile sia a livello delle alterazioni genetiche, sia dei fattori ambientali, sia a livello biologico, sia esperienziale che psicologico, che varierebbe da soggetto a soggetto, comportando alterazioni del sistema nervoso centrale.

Questa concezione multifattoriale derivò da un lungo iter storico, in cui Kanner nel 1943, attribuì la causa dell’autismo infantile all’ipotesi che il disturbo fosse innato e che fosse dipendente dal contatto affettivo. Secondo la sua ipotesi, il bambino presenterebbe un deficit innato nella ricerca della socialità e nella condivisione delle emozioni, includendo anche il ruolo dei fattori genetici ed ereditari nella trasmissione del disturbo. Successivamente negli anni Settanta, con Bettelheim si arrivò ad ipotizzare l’eziologia del disturbo dalle precoci alterazioni dello sviluppo affettivo e dalla relazione madre-bambino, introducendo il concetto di madre-frigorifero, proprio per indicare l’atteggiamento materno freddo e privo di responsività tipico, secondo l’autore, della relazione madre-bambino con Disturbi dello Spettro Autistico (Vivanti, 2010). In seguito, dagli anni Ottanta, si fece spazio la concezione neurobiologica dei disturbi, nella quale si configurerebbe la predisposizione genetica allo sviluppo della sindrome, associata a peculiari alterazioni neurobiologiche (Betancour, 2011). Le stesse Linee Guida Nazionali (ISS, 2011) sottolineano il ruolo determinante dei fattori genetici nello sviluppo delle alterazioni dello spettro Autistico. Un ruolo decisivo fu infatti, quello rivestito dallo sviluppo delle tecniche di Brain Imaging come la tomografia assiale computerizzata e la risonanza magnetica nucleare, che permisero la raccolta di informazioni sulla struttura neurobiologica associata al disturbo (Vendemmia, 2019). Recentemente, numerose ricerche hanno fornito molteplici prove dell’importanza delle alterazioni genetiche nella genesi del disturbo, riscontrando mutazioni genetiche rilevanti e anomalie del DNA in quasi 1/5 dei casi (Schaaf & Zoghbi, 2011). Queste teorie, sono state riscontrate tramite studi effettuati sui gemelli omozigoti, i quali si è scoperto che entrambi svilupperebbero fra il 60% e il 90% la possibilità della manifestazione della patologia (Sandin et al., 2014). Le alterazioni genetiche che verrebbero associate all’autismo, sarebbero numerose e si rifarebbero a tutto il corredo cromosomico, comportando una suddivisione in tre gruppi di alterazioni: 1 alterazione del numero o della forma dei cromosomi; 2 variazioni del numero di ripetizioni di sequenze geniche; 3 alterazione di un singolo gene. Alcune di queste alterazioni, sono state riscontrate a livello ereditario, oppure trasmesse dai genitori a causa di alterazioni nella produzione di spermatozoi o di ovociti, a causa del progressivo aumento dell’età media per il concepimento del primo figlio, oppure dopo il concepimento in fase avanzata dello sviluppo intrauterino del cervello (Laghi &Gradilone 2018).

Un dato relativo agli avanzamenti delle conoscenze sulle basi neurobiologiche del disturbo è stato rappresentato dall’ipotesi di Baron-Cohen sull’ipermascolinizzazione, dovuta ad una maggiore incidenza del disturbo nel genere maschile. Secondo questa ipotesi, denominata anche teoria del cervello maschile, la genesi del disturbo potrebbe essere ricondotta alla iperproduzione di androgeni fetali nel periodo prenatale, dato che giustificherebbe la minore incidenza del disturbo nella popolazione femminile anche se non è ancora stata sottoposta a verifica (Volkmar, 2020).

Anche i fattori ambientali secondo le recenti scoperte, giocherebbero un ruolo rilevante, tanto da poter distinguere i fattori ambientali prenatali, perinatali e postnatali. Per quanto concernono i fattori biologici prenatali sarebbero riscontrabili nelle infezioni, i problemi allergici o autoimmunitari, i problemi endocrinologici, l’esposizione a farmaci o sostanze tossiche, l’ipertensione gestazionale, il diabete gestazionale, l’eccesso di testosterone nel liquido amniotico, la minaccia di aborto e l’emorragia pre-parto (Angelidou et al., 2012; Fox-Edmiston et al., 2015). Invece, per quanto riguarda i fattori perinatali sarebbero riconducibili ad anomalie della gestazione come ad esempio la durata gestazionale inferiore tra le 28 e le 33 settimane, il basso peso alla nascita e all’asfissia perinatale (Rosenstein et al., 2014). Per i fattori postnatali sarebbero riconducibili alle anomalie di sviluppo dell’amigdala, deficit nella produzione della vitamina D e ai vaccini, anche se l’Istituto Superiore di Sanità, ha affermato l’impossibilità che i vaccini possano causare l’autismo, sottolineando invece che le malattie autoimmuni e le infezioni virali potrebbero essere dei possibili fattori di rischio della patologia (CNOP, 2019).

Tutte le recenti informazioni che sino ad ora ci sono pervenute, sono rese possibili dall’utilizzo delle tecniche di neuroimaging e della risonanza magnetica, ha permesso di studiare e conoscere lo sviluppo anatomico cerebrale del cervello dei soggetti con sindrome di autismo. Questi studi, hanno permesso di evidenziare uno sviluppo precoce e accelerato del cervello, sia della sostanza grigia che di quella bianca, variando anche la circonferenza cranica dei bambin con sindrome di autismo. Questo sviluppo si manifesterebbe dal primo anno di vita fino ai quattro anni, con una consecutiva riduzione fino al recupero di dimensioni normali alla fine dell’adolescenza (Lainhart et al., 2006). Da ulteriori ricerche è emerso che nei soggetti autistici, vi siano delle anomalie nella corteccia prefrontale dorsale laterale, in quella parietale superiore, dell’insula, del solco intraparietale, dell’amigdala e del nucleo del caudato. Inoltre, sono state riscontrate anomalie nell’attività delle aree cerebrali in relazione alle competenze neuropsicologiche e della corteccia orbito-frontale e del cervelletto, le quali sono associate alle funzioni cognitive e motorie del soggetto, in particolare alle funzioni come l’attenzione, la memoria di lavoro, il coordinamento muscolare e l’inibizione (Solomon et al., 2017).

Un ulteriore fattore eziologico che ha influenzato la ricerca è quello rappresentato dalle sindromi neurotrasmettitoriali. Secondo tale prospettiva, un ruolo rilevante potrebbe essere attribuito alle alterazioni dei neurotrasmettitori del sistema frontale rappresentati dalla serotonina, dalla dopamina, dall’ossitocina e dalla vasopressina (BPS, 2012). Ancora oggi non vi è la certezza di tale attribuzione, ma è ipotizzabile un loro coinvolgimento nella genesi del disturbo. Per tale motivo, la ricerca sulle alterazioni neurobiologiche e neurotrasmettitoriale rappresenta un campo in continua evoluzione nell’ambito della ricerca sui fattori eziologici del disturbo, dato che ancora non è riscontrabile la causa determinante del disturbo.

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Capitolo 2: L’osservazione come lente e strumento per conoscere ciò che ci circonda

Cosa si intende per osservazione

Osservare, vuol dire porre l’attenzione su un evento o su una persona per raccogliere informazioni utili in relazione ad un preciso obiettivo. L’uomo osserva perché è costantemente alla ricerca di informazioni per leggere e interpretare il mondo circostante, ma soprattutto per trovare soluzioni ai suoi bisogni e ai suoi problemi. A tal proposito, ci si è chiesti, se vi possa essere una similitudine o una differenza tra il semplice guardare e l’osservare. Queste due semplici attività che l’essere umano svolge quotidianamente, sono contraddistinte da una differenza sostanziale, il vedere o il guardare sono atti spontanei, rapidi e non selettivi, a differenza dell’osservare che è sì un fenomeno autentico, ma con uno scopo e una finalità ben precise, con obiettivi ben delineati che portino alla descrizione il più possibile oggettiva e completa del fenomeno che si intende osservare (Mantovani, 1995).

Quindi, come si può evincere, l’osservazione è un fenomeno autentico di conoscenza che si configura a sua volta, come un processo cognitivo che mira alla comprensione di un fenomeno coinvolgendo anche i dati pervenuti dai sensi. In campo scientifico però, l’osservazione è un processo di identificazione e organizzazione di dati il più possibile oggettivo (Formisano, 2019).

Possiamo così distinguere l’osservazione in due tipologie:

  • Occasionale: in modo non intenzionale, attraverso l’analisi delle informazioni che ci provengono dal contesto.
  • Sistematica: osservazione per mezzo di un metodo preciso che permetta di organizzare i dati secondo schemi ben precisi (Longobardi, 2012).

Dunque, l’osservazione per essere scientifica e attendibile, deve essere il più possibile oggettiva e neutrale, motivata da interesse senza però alimentare delle eccessive aspettative. Una delle complessità dell’osservazione è proprio la difficoltà nel mantenere la neutralità, in quanto, l’imparzialità sarà sempre vincolata dalle aspettative dell’osservatore e proprio per evitare ciò, il metodo sperimentale, cerca di delimitarla nel tentativo di controllare il pericolo di alterazioni dei dati. Ciò, si manifesterebbe ancora più complesso nel caso in cui l’osservatore sia direttamente coinvolto nel rapporto con i soggetti da osservare, infatti, l’osservatore, potrebbe incorrere ad una deformazione o ad una distorsione dei fatti osservati. Alcune delle distorsioni riscontrabili sono:

  1. La reattività dei soggetti osservati: i soggetti osservati, modificherebbe il comportamento e per evitare ciò, l’osservatore può prevedere un momento di familiarizzazione in modo che si abituino alla sua presenza.
  2. Le aspettative dell’osservatore: esso tende a vedere ciò che possa confermare l’ipotesi di partenza.
  3. Il linguaggio: esso deve essere il più possibile descrittivo e privo di giudizi di valore.
  4. Il contesto: che influirebbe nel raccoglimento dei dati.
  5. Il tempo: la durata degli eventi, la loro frequenza e la loro sequenza deve essere precisa, in modo che possano diventare una risorsa nella comprensione di un evento (Longobardi, 2012).

L’osservazione, quindi è un elemento fondamentale ed ineliminabile nel processo di ricerca scientifica, anche se insito di variabili. Infatti, per lungo tempo si è ritenuto che essa fosse sufficiente al raccogliere accuratamente una serie di informazioni ritenute significative per poter garantire scientificità ed oggettività alle rilevazioni effettuate (Magri, Rossi, 1998). Questa prospettiva però, venne superata, perché tale affermazione, non terrebbe conto del fatto che, per quanto l’osservatore si sforzi di catalogare nel modo più preciso e sistematico l’osservazione, in essa confluirebbero elementi di soggettività, legati al proprio modo di “leggere” la realtà (Formisano, 2019).

Ma facendo un passo indietro, il metodo dell’osservazione è sempre stata oggetto di studio del metodo scientifico, tanto che già Galileo Galilei alla fine del sedicesimo secolo, sottolineò l’importanza del metodo sperimentale, unendolo al procedimento osservativo come metodo che portasse alla risoluzione di qualsiasi ipotesi. Infatti, il metodo galileiano si basò: sull’osservazione del fenomeno, cioè la raccolta di informazioni e dati inerenti allo studio; sulla ricerca delle regolarità e della proposta di una ipotesi, ovvero di una possibile spiegazione dei fatti osservati; sulla verifica sperimentale dell’ipotesi in condizioni ripetibili; sulla formulazione di una legge che generalizzi i risultati ottenuti e infine l’elaborazione di una teoria, cioè di un modello per mezzo del quale si possa dare una spiegazione del fenomeno osservato, prevedendo la tendenza degli altri fenomeni a esso collegati. (Boca et all, 2007).

Un altro studioso che si interessò al metodo osservativo, fu Karl Popper, il quale fondò il suo pensiero sul principio della falsificabilità, cioè sull’assunto di base che ogni convinzione possa essere messa in discussione, mettendola alla prova per verificarne l’autenticità. Infatti, affermò che, qualsiasi problema preesistente non potesse basarsi su una pura osservazione, non confidando negli osservatori “puri”, in quanto essi si illudevano di osservare i fenomeni, privi di idee preconcette per costruire alla fine una teoria. Pertanto, per il metodo popperiano, non esisterebbero osservatori che in sé non fossero in possesso di idee prefissate, sia che essi ne siano consapevoli che non. Infatti, esso giunse alla conclusione che ogni osservazione scientifica, sia un’interpretazione di fatti, dove alla base sia sempre presente una teoria, che andrebbe sempre verificate ed eventualmente modificata (Stokes, 2002).

L’importanza del metodo osservativo, dunque, affonda le sue radici nella storia scientifica, e oltre questi due illustri studiosi, che ne affermarono l’utilità e l’utilizzo di tale metodo, essa trova il suo impiego anche all’interno del campo del comportamento infantile. Difatti, alcuni tentativi di utilizzo di tale metodo, furono applicate alla fine del 700, con i primi studi sulle prime fasi di sviluppo dei bambini e i loro relativi cambiamenti (Benvenuto, 2015). Però solo successivamente, con l’avvento dell’etologia, si ebbe l’assunzione del metodo osservativo come riferimento teorico e come vera procedura metodologica. Tale approccio, si dedicò allo studio e alla spiegazione del comportamento degli animali all’interno dei loro ambienti naturali e proprio partendo da ciò, essa si rivelò particolarmente vantaggiosa, perché all’interno delle ricerche relative ai primi anni di vita dei bambini, cioè a quel periodo in cui è assente o abbastanza limitato il loro linguaggio verbale, vennero introdotte le tecniche osservative utilizzate dall’etologia.

Infatti tale approccio si caratterizza su delle peculiarità osservative:

  • Il soggetto sottoposto ad osservazione deve essere lasciato nel suo ambiente naturale;
  • L’osservatore non deve interferire nella situazione osservata;
  • I comportamenti osservati devono essere descritti in modo oggettivo evitando di esprimere opinioni. L’obiettivo finale è la costruzione dell’etogrammacioè un repertorio di modelli di comportamento propri del soggetto o animale osservato (Benvenuto, 2015).

Da ciò quindi, si può evincere che l’osservazione debba avere delle caratteristiche ben precise, tantoché con l’avvento dell’etologia tali caratteristiche risultarono molto utile per l’osservazione nei più piccoli, permettendo di verificare gli schemi comportamentali manifestati. Tale metodologia, prese sempre più campo all’interno di vari ambiti di ricerca, diventando un metodo sempre più utilizzato e valido nel riscontro di vari aspetti sottoposti al metodo osservativo.

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Le tipologie d’osservazione

Nel 1985, Bailey, ipotizzò che l’osservazione potesse differenziarsi in base all’utilizzo di due parametri ben specifici:

  • Il grado di struttura dell’ambiente, cioè se l’osservazione fosse ambientate sul campo o in laboratorio.
  • Il grado di struttura che l’osservazione impone all’ambiente (Lucidi et all, 2008).

Da questa prima differenziazione, si può notare come, la strutturazione dell’ambiente, sia rilevante, in quanto la possibilità di avere direttamente degli studi sul campo cioè in ambienti naturali evidenziano la possibilità di notare i comportamenti in un’ambiente che sia familiare al soggetto osservato, prevedendo o meno una strutturazione da parte dell’osservatore. Similarmente, le osservazioni condotte in laboratorio possono essere più o meno strutturate (Candelori, 2013).

Grazie a questa prima differenziazione, possiamo distinguere vari tipi di osservazione:

  • Sul campo o in laboratorio;
  • Diretta: cioè quando il ricercatore esercita un minimo di controllo su ciò che intende studiare; indiretta: cioè viceversa viene esercitato un medio o massimo controllo su ciò che si vuole studiare;
  • Partecipata o distaccata: a seconda della misura in cui il ricercatore interviene nel contesto osservativo (Longobardi, 2012).

La tipologia dell’osservazione sul campo può al suo interno a sua volta distinguersi in osservazione di riconoscimento e osservazione naturalistica. La prima detta anche qualitativa, ha come obiettivo il contatto o la familiarizzazione dell’osservatore con i soggetti in un determinato contesto e l’individualizzazione di eventuali problemi da risolvere. In questo tipo di osservazione, l’attenzione non è individuata su specifici aspetti, poiché non risulta ancora guidata da un preciso interesse. La seconda invece, è volta alla conoscenza dei comportamenti e ai periodi temporali in cui essi si manifestano, in riferimento al contesto sociale e all’ambiente fisico in cui i soggetti vivono. Tali informazioni, consentono di procedere alla descrizione, alla categorizzazione, all’interpretazione, fino alla comprensione dei comportamenti osservati. Un esempio di osservazione è riscontrabile nell’approccio etologico che si ispirò alla teoria sulla specie di Darwin ed al lavoro nel 1935 sull’imprinting di Lorenz, dove evidenziarono l’utilizzo del metodo dell’osservazione del comportamento animale nell’ambiente naturale come mezzo utile alla descrizione puntuale dei fenomeni da osservare. Per questo, gli etologi per primi utilizzarono lo strumento della videoregistrazione come metodo che potesse preservare l’ambiente d’osservazione e che potesse allo stesso tempo, riportare in maniera visibile e dettagliata i fenomeni da studiare. Ovviamente, i vantaggi riscontabili di tale strumento furono, la possibilità di documentare quel che si potesse osservare e di poterlo conservare nel tempo, evitando distorsioni di memoria; l’opportunità di effettuare analisi dettagliate delle immagini ripetendole nel tempo, permettendo la descrizione accurata e fedele del fenomeno, mentre uno degli svantaggi potrebbe essere riconducibile alla frammentazione del comportamento e a sua volta alla mera finalità esplorativa dell’osservazione (Candelori, 2013). Tramite tale osservazione inoltre, venne prevista la descrizione dei comportamenti osservati e il loro raggruppamento in categorie, permettendo la compilazione di un catalogo comportamentale, definito etogramma, cioè una lista minuziosa dei moduli comportamentali dell’individuo o dell’animale osservato, arrivando così a un’analisi dei dati soltanto dopo aver osservato, descritto e catalogato i comportamenti, potendo così elaborare un’ipotesi interpretativa (Camaioni, Simion, 2004).

Per quanto riguarda l’approccio etnografico nell’osservazione naturalistica l’osservatore invece è partecipante e non si pone il problema dell’influenza dell’osservatore sul comportamento osservato. Il ricercatore, definendo l’oggetto del suo studio, inizialmente cercherà di familiarizzare, per creare un clima di fiducia, per poi utilizzare la registrazione dei dati in un secondo tempo, proprio per le difficoltà di utilizzarle durante l’osservazione. L’applicazione di questo metodo si avvale della tecnica del protocollo quotidiano e un diario compilato giornalmente per annotare le varie osservazioni rilevanti (Longobardi, 2012). Quindi, si può dedurre che l’approccio ecologico, al pari di quello etologico, si limitano a osservare e misurare il comportamento senza operare manipolazioni, privilegiando l’osservazione in condizioni naturali, anche se vi sono delle differenze in quanto gli ecologi descrivono come accadono le cose, argomentando sulla qualità delle azioni e giustificando le inferenze dell’osservatore, gli etologi invece evitano tali descrizioni del comportamento astenendosi da ogni interpretazione (Coggi, Ricchiardi, 2005).

Invece, l’osservazione in laboratorio, è un’osservazione controllata condotta in un ambiente artificiale, che permette la manipolazione della situazione, al fine o di stimolare o di facilitare le risposte comportamentali che si intendono monitorare. Questa tipologia osservativa ha l’obiettivo di valutare l’equilibrio come ad esempio notò Mary Ainswort negli anni ‘70 nella famosa Strange Situation cioè “situazione strana” creata per osservare il tipo di attaccamento che si creerebbe fra il bambino e la madre e l’autonomia del bambino a scoprire l’ambiente circostante sia da solo che con la presenza di un estraneo. Uno dei vantaggi di tale metodo, è che i soggetti esaminati vengono osservati nella stessa condizione, confrontando in modo controllato le relazioni nelle diverse situazioni. Gli svantaggi invece sono relegati al fatto che, le situazioni siano poco naturali non permettendo di conoscere l’esperienza soggettiva e il comportamento naturale dei soggetti esaminati (Longobardi, 2012).

L’osservazione diretta invece, si ha quando tra l’osservatore e l’osservato non si interpongono strumenti o dispositivi di registrazione in quanto, lo svolgimento non richiede un differimento di tempo poiché la registrazione dei dati avviene nel momento dell’osservazione. Questo tipo di osservazione non prevede l’uso di test e di interviste, né una descrizione retrospettiva dei fenomeni studiati, anche se essa può assumere un carattere descrittivo qualora il ricercatore intendesse osservare tutti i comportamenti di un dato soggetto in un periodo di tempo, focalizzandosi su un particolare aspetto del comportamento diventando più selettiva e più veloce. Ma tale osservazione diretta viene definita anche naturalistica quando l’osservatore evita di influenzare il comportamento che intende studiare in condizioni naturali o in situazioni di vita reale, evitando di interpretarlo in base alle proprie aspettative e idee, evitando la possibilità che si alteri la scena dell’osservazione e si generi di conseguenza un comportamento. Per tali motivazioni, l’osservazione naturalistica è una metodologia che può essere ben utilizzata in ambiti come la psicologia dell’età evolutiva, proprio per studiare il comportamento infantile, l’interazione tra coetanei o il rapporto genitori-figli. I vantaggi dell’utilizzo di tale metodo, sarebbero proprio nella descrizione del comportamento spontaneo nei contesti quotidiani, aiutando a esaminare i processi di interazione sociale. Mentre gli svantaggi potrebbero essere riscontrati nella difficile valutazione dell’influenza dei vari fattori che si possono interporre nell’osservazione non adatte a rilevare i comportamenti poco frequenti (Mesetti, 2010).

Contrariamente, l’osservazione indiretta, viene definita tale quando si utilizzano strumenti come questionari o interviste che mediano tra l’osservatore e l’osservato (Venuti, 2001). Si tratta di strumenti particolarmente adatti a raccogliere opinioni, idee, credenze intorno a un determinato argomento, ma sia la costruzione sia la somministrazione di questi strumenti debbano tener conto delle caratteristiche dei soggetti che si intendono valutare, oltre al fatto che i soggetti tendono a rispettare le aspettative del ricercatore o a dimostrarsi competenti. Il questionario può essere a risposte chiuse o a risposte aperte. Le domande a risposta chiusa però sono create con un’alternativa prefissata comportando dei vantaggi: le risposte sono standardizzate; sono facilmente analizzabili e le risposte sono sufficientemente complete cioè sono previste tutte le possibilità di risposte appropriate mentre è esclusa la possibilità di produrre risposte irrilevanti del tipo “non so” e “non ricordo”. Qualora non sia possibile prevedere le risposte o l’elenco delle risposte risulti troppo lungo o ancora le domande facciano riferimento ad argomenti complessi che sollecitano risposte ragionate, è opportuno formulare domande aperte. Esse, sono particolarmente utili nelle ricerche preliminari, poiché consentono al ricercatore di dedurre dalle risposte le caratteristiche più indicative del fenomeno che intende studiare. Le domande aperte comportano lo svantaggio di stimolare un alto numero di informazioni irrilevanti o inutili. Inoltre porre domande aperte presuppone soggetti che possiedano capacità argomentative, o che almeno siano in grado di esprimersi, mediante linguaggio o scrittura, in modo sufficientemente comprensibile, richiedendo ovviamene una codifica. Le interviste invece, possono essere di vari tipi:

  1. strutturate a risposte aperte o chiuse o con diverse modalità di risposta;
  2. semi-strutturate dove si considera la possibilità di approfondire le domande con sotto domande;
  3. direttive dove sono presenti domande aperte con la possibilità di non seguire l’ordine delle domande;
  4. focalizzate per indagare su un tema specifico ma senza aver strutturato una serie di domande;
  5. in profondità con lo scopo di indagare le aree psicologiche più profonde (Venuti, 2001).

Al contrario invece, nell’intervista non strutturata la relazione comunicativa tra ricercatore e osservatore è priva di un argomento specifico, creandosi una relazione interpersonali tra i componenti della ricerca. Nell’intervista quindi le domande devono essere formulate in modo chiaro e rassicurante, facendo attenzione a non urtare la sensibilità del soggetto con forme espressive che potrebbero essere valutate indelicate. In ogni modo, l’utilizzo di questionari e interviste comporta necessariamente un’interazione sociale tra il ricercatore e soggetto esaminato, o intervistato. Infatti uno dei vantaggi è il permettere al ricercatore un’interazione più diretta, personalizzata e flessibile con il soggetto intervistato, consentendo di operare con maggior cura nell’accertamento delle risposte, invece uno degli svantaggi sarebbe relegato ai questionari che offrono garanzie di maggior standardizzazione e poca possibilità di ampliamento (Venuti, 2001).

L’osservazione partecipante indica le osservazioni prolungate fatte sul campo da un ricercatore che partecipi alla vita dei gruppi studiati, calandosi in una situazione, in un contesto culturale, in un gruppo sociale, divenendone in qualche modo parte, instaurando rapporti interpersonali con i soggetti di quel relativo contesto (Coggi, Ricchiardi, 2005). L’osservatore, provvederebbe a registrare i fatti osservati, interpretandoli al fine di darne un senso, non escludendo l’utilizzazione oltre che degli strumenti della conversazione e del colloquio anche l’uso di registri, verbali, lettere personali, autobiografie, diari, ecc. In base al coinvolgimento o meno dell’osservatore, l’osservazione che può essere di maggiore o minore intensità, differenziandosi a sua volta in osservazione partecipante o distaccata. Infatti, Spradley nel 1980 evidenziò ben cinque diversi livelli di osservazione distanziata, dove:

  • l’osservatore distaccata, dove non è fisicamente presente;
  • partecipazione passiva, dove è presente ma non interagisce;
  • partecipazione moderata, dove vi è un equilibrio tra distacco e coinvolgimento;
  • partecipazione attiva, esso partecipa agli avvenimenti e raccoglie informazioni;
  • partecipazione completa dove esso diventa membro del gruppo condividendo con i soggetti esaminati regole e scopi (Lucisano, Salerni, 2002).

Quindi, l’osservazione partecipante prevede, bensì, una presenza attiva dell’osservatore che in questo modo può rilevare non soltanto ciò che è osservabile ma può annotare atteggiamenti, conoscere opinioni e considerare i sentimenti dei soggetti (Lucisano, Salerni, 2002).

Infine, nell’osservazione distaccata invece, la prioritaria è la salvaguardia dell’obiettività, con la riduzione al minimo delle influenze dell’osservatore e la registrazione dei dati avviene in più fasi:

  1. rilevando tutto ciò che si vede;
  2. sì finalizza la registrazione al riconoscimento delle regolarità negli eventi osservati;
  3. si definisce l’ipotesi di lavoro.

I vantaggi nell’applicazione di questo metodo sono l’accurata descrizione e la raccolta di moltissimi dati, mentre gli svantaggi sono la mancata garanzia nell’osservazione oggettiva dei fatti e la necessità d’impiego di molte risolse e l’allungamento dei tempi di ricerca (Mesetti,2010).

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Pianificare l’osservazione: chi osservare

Ancora oggi l’osservazione costituisce il metodo al quale si ricorre con maggior frequenza negli studi dell’infanzia e dell’età prescolare. Per le sue caratteristiche, la ricerca osservativa è indicata con i bambini piccoli sia nella forma naturalistica sia in quella controllata. L’osservazione si rivela particolarmente efficace con i più piccoli e con i neonati poiché la presenza di un estraneo non manifesterebbe l’alterazione dei loro comportamenti (Candelori, 2013).  Il problema si pone però con i bambini più grandi, cioè di età prescolare, sui quali la presenza di uno sconosciuto può esercitare un’influenza, modificando i consueti atteggiamenti; anche se ciò può essere risolto attraverso un periodo di familiarizzazione con il ricercatore. Anche con i soggetti di età scolare e con gli adolescenti il problema della presenza di un adulto esterno si risolverebbe adottando la strategia dell’osservazione dissimulata, in cui l’osservatore si nasconde o si maschera, oppure ricorrendo a osservazioni partecipanti. L’adozione del metodo osservativo dagli anni ’60 in poi è diventata una costante di quasi tutti gli studi riguardanti le varie competenze del bambino, in particolare il comportamento comunicativo e sociale, dettato proprio dal diverso modo di considerare la crescita del bambino. Un’altra considerazione è suggerita dall’affermarsi, negli anni ‘80, del modello ecologico dello sviluppo, che spinse i ricercatori a studiare le interazioni tra soggetti coetanei nel loro ambiente naturale per evidenziarne soprattutto l’aspetto valutativo (Formisano, 2019).

 Pertanto, tale metodo ha portato moltissime agevolazioni, dando la possibilità di esaminare accuratamente determinati aspetti e peculiarità che altrimenti sarebbero passate inosservate. In questo elaborato, l’oggetto d’osservazione si sofferma proprio sull’importanza di questo metodo all’interno del mondo dell’autismo come campione osservativo. Tale osservazione ha apportato nel tempo delle agevolazioni nella diagnosi, sottolineando dei segnali principalmente osservabili come, la chiusura nei confronti del mondo esterno, i comportamenti ripetitivi, i movimenti scoordinati, i problemi nel linguaggio, lo scarso interesse per gli altri bambini ecc.…, permettendo quindi, che l’oggetto dell’osservazione sia il soggetto nella sua interezza, all’interno delle dinamiche sociali e relazionali.

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Che cosa osservare

L’oggetto dell’osservazione nei bambini molto spesso è il comportamento. Infatti, esso lo si può pensare come alle estremità di un ideale continuum dove si possono collocare gli eventi momentanei e gli stati che caratterizzano il comportamento (Boca et all, 2007). Definendo meglio, per evento, si intende, uno schema comportamentale di breve durata, ma di elevata frequenza, dove il bambino aumenterebbe il numero di volte in cui esso manifesterebbe un determinato comportamento. Gli stati contrariamente, sono schemi comportamentali di lunga durata cioè delle attività che si prolungherebbero nel tempo, caratterizzati però da un inizio e da una fine (Benvenuti, 2015).

Dall’unione della durata e della frequenza però, si possono avere quattro diverse tipologie di comportamento: il momentaneo e frequente battito delle ciglia; il momentaneo e infrequente schiarirsi della voce/colpo di tosse; il durevole e frequente camminare/parlare e il durevole e infrequente atto aggressivo (Longobardi, 2012).

Dunque, le tipologie comportamentali sono importanti perché influirebbero sulle strategie di osservazione, sulla durata dell’indagine richiedendo tempi di osservazione lunghi nei casi di comportamenti infrequenti e tempi più brevi nel caso di comportamenti frequenti. Tutti questi dettagli, permettono un’acquisizione di dati rilevanti che si pongono come fondamento base della ricerca, come nel caso dei bambini con spettro autistico, dove tali comportamenti risultano stereotipatati, ripetitivi e maniacali, come evidenziato precedentemente dagli studi effettuati su tale disturbo (Frith, 2012).

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La misurazione del comportamento e i mezzi utili all’osservazione

Un fondamento di base per la misurazione del comportamento è la costatazione che esso sia osservabile e misurabile in maniera oggettiva, attraverso sistemi di misura che permettano di valutarle senza dubbi e soggettività, solo in questo modo sarà possibile utilizzare le misure del comportamento per valutare le variazioni indotte nel comportamento (Lucidi et all, 2008).

 Per tale ragione, sono stati evidenziati delle tipologie fondamentali di misurazione del comportamento:

  • Latenza: misurata in unità di tempo, secondi minuti o ore, si riferisce al tempo che passa tra un evento e il manifestarsi dei primi segnali del comportamento;
  • Frequenza: è rappresentata dal numero di volte in cui un particolare schema comportamentale si ripete nel tempo, ed è data dal rapporto fra la ricorrenza di un comportamento e l’unità di tempo;
  • Durata: è la frazione del tempo in cui avviene una sola occorrenza di uno schema   comportamentale. Può essere: totale (percentuale o proporzione del tempo impiegato a compiere quel comportamento) o media (lunghezza media di un’occorrenza singola di un certo comportamento e si ottiene registrando la durata di ciascuna occorrenza del comportamento e calcolando la media delle durate);
  • Intensità: misura l’intensità di uno schema comportamentale;
  • Densità: fa riferimento alla preponderanza e all’efficacia di un comportamento su tutti gli altri (Dovigo, 2014).

Quindi, una misurazione segue specifiche regole in base a cui attribuire numeri opportunamente calcolati alle osservazioni compiute. Infatti, tali misurazioni sono riportabili all’interno di alcune scale di misurazione definite scale di valutazione:

  • Nominale, qualora le osservazioni siano riferite alle categorie qualitative, la variabile è misurata su scala nominale o categoriale;
  • Ordinale, qualora sia possibile classificare le osservazioni in base a una caratteristica comune, misurata su scala ordinale;
  • Intervalli, nel caso che i punteggi possano essere collocati su una scala, misurata su una scala di intervalli e il punto 0 e l’unità di misura sono arbitrari;
  • Rapporto, è il più alto livello di misurazione che si raggiunge quando la scala non solo abbia tutte le caratteristiche di una scala a intervalli, ma possieda anche un proprio punto 0. Questa scala è definita di rapporto perché il rapporto fra due misurazioni non dipende dall’unità di misura arbitraria; un esempio sono le scale di frequenza e tempo (Longobardi, 2012).

Per far sì che un comportamento possa essere nuovamente osservato ed esaminato, la ricerca si affida ad alcuni mezzi di registrazione, che però riferiti alle osservazioni comportamentali non sono sempre neutrali, ma possono avere importanti conseguenze sulla qualità delle informazioni. I mezzi normalmente impiegati sono di cinque tipi: videoregistrazioni; descrizioni verbali scritte o dettate; sistemi di registrazione automatica; protocolli sperimentali; registratore di eventi computerizzati (Aureli, Perucchini, 2014).

Le videoregistrazioni, possono mettere a disposizione dell’osservatore una documentazione audiovisiva che può essere in qualsiasi momento e più volte analizzata anche da più osservatori, garantendo attendibilità e affidabilità. La descrizione verbale del comportamento invece, può avvenire sotto forma di annotazioni riportate su un quaderno o mediante l’utilizzo di registratori audio. Gli strumenti di registrazione automatica, sono utilizzati per misurare tipi di comportamenti particolarmente complessi, sono strumenti in grado di fornire registrazioni per essere memorizzate e analizzate al computer. Lo svantaggio è rappresentato dal costante e continuo miglioramento delle loro prestazioni, richiedendo all’osservatore un aggiornamento continuo. Il protocollo sperimentale inoltre, richiede soltanto carta e matita, si tratta di un sistema di registrazione delle osservazioni adattabile e valido e a renderlo efficace è soprattutto l’abilità dell’osservatore che può raccogliere una considerevole quantità di informazioni con accuratezza e precisione. Infine, il registratore di eventi computerizzati è un PC con cui poter immediatamente registrare le osservazioni comportamentali. I vantaggi nell’utilizzo di queste tecniche riguardano i tempi della registrazione che risultano maggiormente precisi, l’osservatore può registrare i comportamenti che presentano una rapida occorrenza e può anche valutare un maggior numero di categorie. Gli svantaggi sarebbero riconducibili agli strumenti utilizzati, i quali potrebbero mostrarsi sofisticati e complessi nell’utilizzo quotidiano (Aureli, Perucchini, 2014).

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Il senso dell’osservazione e le scelte operative preliminari.

All’inizio del capitolo, si è delineata la definizione dell’osservazione, come fenomeno autentico di conoscenza che mira alla comprensione del fenomeno. Ma per arrivare a ciò, l’osservatore parte da una domanda primordiale che si baserebbe sul delineare “cosa si voglia osservare e su quali elementi o comportamenti ci si voglia focalizzare”. Tale questione è connessa alla scelta di una procedura di codifica consona allo scopo, infatti esistono diverse modalità di codifica in funzione dell’oggetto di studio (D’odorico, Cassibba, 2001).

Difatti, secondo gli autori Postic e De Ketele (1993) si possono distinguere vari tipi di osservazioni: basate sui fatti, sulle rappresentazioni, sulle attribuzioni, sulle narrative, sulle allospettive e sull’introspettive.

  1. L’osservazione basata sui fatti: è finalizzata a raccogliere evidenze circa gli eventi e i comportamenti rilevati e l’oggetto principale di questo tipo di osservazione è il comportamento e le relazioni fra le persone.
  2. L’osservazione basata sulle rappresentazioni: mira a registrare la percezione che i soggetti maturano con le esperienze o gli eventi e in quest’ottica non si tende a usare osservazioni dirette, ma indirette mediante l’uso di questionari.
  3. L’osservazione attributiva: registra la presenza/assenza dell’evento considerato delle azioni che ne specificano la manifestazione e delle specificità dei comportamenti rilevati.
  4. L’osservazione narrativa: dedica invece l’attenzione alla sequenzialità degli eventi osservati.
  5. L’osservazione allospettiva: riguarda la possibilità di differenziare fra soggetto osservatore e oggetto osservato e se questi non coincidono si parla di osservazione allospettiva.
  6. L’osservazione introspettiva: si ha se l’osservatore partecipa alla stessa situazione di ricerca rendendo impossibile una chiara distinzione fra i due, solo in questo caso si parla di osservazione introspettiva. (Postic, De Ketele, 1993).

Queste tipologie di osservazione, a sua volta richiamano un’operazione preliminare di selezione, che riguarda inoltre la scelta dello strumento di rilevazione più idoneo con il quale registrare i comportamenti rilevati. Si tratta, in questo caso, di decidere se affidarsi all’utilizzo di un resoconto degli eventi o all’elaborazione di uno schema di codifica rigidamente strutturato (Venuti, 2001).

Esaminandoli, per quanto concerne il resoconto degli eventi, è finalizzato al reperimento e alla registrazione del maggior numero di informazioni circa gli eventi considerati, ponendo grande attenzione all’accuratezza della descrizione. Si caratterizza per l’utilizzo di un linguaggio quotidiano, con il quale si rappresenta nel modo più fedele possibile il concreto dispiegarsi degli eventi. Questi possono essere narrati con esclusivo riferimento alle manifestazioni oggettive ed evidenti come ad esempio nell’osservazione etologica, oppure anche ricorrendo a inferenze come nell’osservazione partecipante, in ambito etnografico. Man nel resoconto, il focus è accordato principalmente alla descrizione degli eventi in funzione della successione temporale con cui questi si manifestano, assumendo dunque, un valore qualitativo e il suo indiscutibile pregio risiede infatti nella possibilità di cogliere e riproporre la complessità dei fenomeni rilevati. Questa procedura consente infatti all’operatore di entrare nel vivo dell’evento, comprendendolo a fondo e consentendo di proporre inferenze in merito al senso delle dinamiche osservate, utilizzandolo soprattutto nelle fasi preliminari di uno studio. L’utilizzo del resoconto può, d’altro canto, ostacolare la generalizzabilità dei risultati perché ogni rilevazione rappresenta un unicum che non può essere replicato. Inoltre, tale procedura non è però considerabile come un metodo “economico”, sia in termini di tempo sia in termini di personale dedizione, anche se essa non è in grado di riprodurre in modo esatto e fedele la rappresentazione della realtà (Mesetti, 2010).

Diversamente invece, lo schema di codifica scaturisce da una preliminare decisione metodologica, cioè quella di codificare i dati raccolti. Questo, permette di individuare e descrivere sinteticamente attraverso delle unità di significato gli eventi comportamentali ritenuti rilevanti ai fini dell’indagine. La procedura di codifica consente di segmentare il flusso indistinto dei comportamenti osservati, costituendo un passaggio fondamentale nell’esplicitazione in via preliminare dei comportamenti ritenuti importanti e meritevoli di rilevazione al fine dell’indagine. A tal proposito, Wright (1960) propose una classificazione riguardante gli aspetti della rilevazione dei dati, suddividendo i sistemi a metodologia chiusa e sistemi a metodologia aperta (Longobardi, 2012).

Il metodo chiuso, si caratterizza per definire a priori quali siano i comportamenti oggetto di attenzione vincolando le successive rilevazioni. Hanno sicuramente il vantaggio di costituire uno strumento sintetico, facilmente applicabile, un esempio sono le griglie di osservazione dove in questo strumento l’osservatore utilizza simboli convenzionali per annotare la presenza o l’assenza di determinati fenomeni presenti nella griglia, richiedendo una buona conoscenza della situazione da indagare. L’utilizzo della griglia, permette all’osservatore di poter analizzare in un singolo individuo un qualsiasi aspetto specifico facendo riferimento al contesto in cui avviene l’osservazione, prevedendo una serie di categorie di comportamenti o atteggiamenti “bersaglio” che rappresentano un mezzo con cui l’osservatore “legge” la realtà, permettendo così anche un’eventuale programmazione di attività o interventi educativi sul soggetto esaminato. È essenziale che essa preveda la codifica delle dimensioni che si vogliono esaminare rispetto ad uno specifico fenomeno/situazione. Tale strumento può essere utilizzato come mezzo di codifica del materiale precedentemente registrato oppure può essere utile per annotare dei comportamenti nel momento stesso in cui vengono osservati (Trinchero, 2002).

 Un altro metodo molto utilizzato è la scala di valutazione che comprende un insieme prestabilito di categorie o di segni per ciascuna o per ciascuno dei quali è richiesto un giudizio equilibrato. Esse prevedono l’aggiunta della valutazione dell’osservatore che consente di procedere a una classificazione dell’oggetto esaminato, in seguito all’assegnazione di punteggi riferiti al comportamento che si intende valutare, prevedendo due posizioni di valore estremo e tra queste, un certo numero di posizioni intermedie. Le scale si mostrano utili soprattutto nell’osservazione di variabili ad alta inferenza, quindi per rilevare aspetti difficili da osservare direttamente, anche se il limite più grande è costituito dalla soggettività dell’osservatore, esercitando la sua influenza in diversi modi. Le scale di valutazione devono essere elaborate in modo tale da produrre dati oggettivi, attendibili, sensibili e validi.

  1. L’oggettività richiede la verificabilità e riproducibilità di ciò che è stato osservato;
  2. l’attendibilità è garantita dalla possibilità di ottenere gli stessi risultati, applicando gli strumenti agli stessi soggetti nelle medesime condizioni;
  3. la sensibilità è in relazione alla capacità dello strumento di effettuare distinzioni tra i diversi aspetti del fenomeno studiato;
  4. la validità è data dalla congruenza e rilevanza dei comportamenti valutati con gli obiettivi dell’osservazione. Quindi si può affermare che una scala è valida se misura ciò che deve realmente misurare (Dovigo, 2014).

Il metodo aperto, contrariamente mira a descrivere il comportamento in modo globale, lasciando libero l’osservatore di registrare tutti gli aspetti ritenuti pertinenti. Comportano il rischio di dare luogo a descrizioni eccessivamente ampie e dispersive. È vero però che se il metodo chiuso rischia di limitare gli eventi entro cornici prestabilite, con la possibile conseguenza di dare una rappresentazione distorta della realtà, i metodi aperti costituiscono una modalità più coerente nel riprodurre i comportamenti osservati. Un esempio sono le osservazioni descrittive dal vivo “carta e penna” che permettono di poter prendere appunti sul campo, approfondendo lo studio del contesto in cui si svolge il comportamento, ma uno degli svantaggi sarebbe riconducibile alla lunghezza delle trascrizioni, delle elaborazione e delle valutazioni, con possibile perdita di elementi importanti come esitazioni, posture, intonazioni di voce ecc.. Oppure un ulteriore strumento utilizzato sono i diari che consentono un’osservazione narrativa con un linguaggio semplice e ordinari. Non prevedono un oggetto di osservazione stabilito in precedenza e la registrazione deve rispettare l’ordine cronologico degli eventi. Mediante i diari si possono fare osservazioni di tipo biografico e autobiografico utili quando si vuole indagare sulle possibili correlazioni tra gli effetti ad esempio di un apprendimento e i metodi utilizzati in relazione alle situazioni di partenza. I dati raccolti mediante annotazioni consentono un’analisi qualitativa dei dati, anche se i diari autobiografici si basano sull’auto-osservazione e perciò includono delle vere e proprie introspezioni. Ad essere compromesso però è soprattutto il criterio dell’obiettività e come precedentemente detto la perdita di alcuni elementi utili all’osservazione (Aureli, Perucchini, 2014).

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Osservazione e autismo un legame utile e necessario

Il metodo osservativo nel suo lungo percorso storico ha delineato sino ad arrivare a oggi, una scia di elementi e caratteristiche che hanno contraddistinto un cammino pieno di dati utili a poter effettuare diagnosi, o più semplicemente il far notare aspetti che possano contraddistinguere un essere umano dall’altro. L’osservazione per quanto distaccata, spregiudicata, completa e dettagliata che sia, ci ha insegnato che il comportamento umano è frastagliato da caratteristiche uniche e speciali come nel caso dei bambini con spettro autistico. Per questo, ci si rende conto che grazie all’osservazione oggi è possibile delineare ancor di più i sintomi e i comportamenti autistici, in quanto grazie alle prime osservazioni pervenute dai genitori e dal personale medico competente, oggi si possono delineare le caratteristiche di tale patologia. Per far sì che essi possano essere aiutati e sostenuti, è utile che siano elaborati dei programmi d’intervento efficaci adatti alla conoscenza della patologia e del metodo osservativo, è necessario che essi siano utilizzati in modo consapevole e ben delineato, in quanto non esiste un’azione educativa che non derivi da un’attenta e corretta osservazione del comportamento posto in esame, come in questo caso quello infantile. Quindi, imparare a osservare e saper osservare è sicuramente un compito complesso ed arduo, ma allo stesso modo una vera sfida verso sé stessi e verso gli altri, un monito per coloro che verranno e una possibilità in più per tutti coloro che in primis hanno in sé delle caratteristiche speciali e uniche.

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Capitolo 3: Come intervenire concretamente con i soggetti autistici: i modelli educativi a confronto

Il lungo cammino che ci ha portato fin qui, ci pone le basi per delle osservazioni concrete e in sé coscienti e consapevoli sul mondo dell’autismo e sul metodo osservativo. Questi due aspetti esaminati cioè l’autismo e l’osservazione, rendono noto come l’osservazione sia alla base della scelta di un adeguato modello educativo da utilizzare con i nostri “bambini speciali”.

Dal momento che i disturbi dello spettro autistico costituiscono una condizione nella quale le alterazioni dello sviluppo psicomotorio sono determinate da alterazioni congenite del sistema nervoso centrale, ne consegue che, allo stato attuale delle conoscenze, l’autismo non possa essere “curato” e dallo stesso non si possa guarire (Foxx,2021).

Lo spettro autistico è una realtà molto complessa, che non ha ancora una causa chiaramente stabilita. Per questo motivo, negli ultimi decenni si sono sviluppate una grande quantità di differenti tecniche di trattamento, che enfatizzerebbero l’espressione “educativo-abilitativo”, riferita agli interventi che tenderebbero ad educare ed abilitare i soggetti con tale problematica. Questo, punterebbe l’accento proprio sulle abilità adattive che il soggetto acquisirebbe, rendendolo sempre più capace di interagire con l’ambiente, raggiungendo il più possibile un adattamento ottimale, in un processo di “abilitazione”, ovvero di formazione, di potenziamento delle proprie risorse. Tale costruzione non può mettere da parte la conoscenza del funzionamento neuropsicologico della persona con autismo, ma soprattutto la conoscenza specifica del singolo individuo, del suo personale livello di sviluppo nelle diverse aree funzionali, definite in base alle valutazioni diagnostiche condotte da specialisti, dei suoi interessi e delle sue attitudini (Roccella, 2019).

Dunque, per far si che ciò avvenga, è necessario che si crei un’alleanza che includa ruoli, conoscenze, metodologie, tecniche e strategie d’intervento, con il compito di creare ambienti di apprendimento funzionali alla crescita della persona per tutto l’arco di vita e in tutti i contesti di vita.

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Il modello comportamentale “ABA” Applied Behavior Analysis.

Uno dei modelli che negli ultimi anni, si è annoverato come tra i più efficaci al trattamento del disturbo autistico è l’acronimo ABA che sta per “Applied Behavior Analysis” cioè l’Analisi Applicata del Comportamento.

La teoria comportamentista interpreta l’autismo come una sindrome su base neurologica che si manifesta attraverso specifiche modalità comportamentali, rappresentate in parte da eccessi, in parte da deficit comportamentali, sulle quali però è possibile intervenire e apportare modifiche da parte dell’ambiente (Foxx, 2021).

L’applied behavioral analysis (ABA), ovvero l’analisi applicata del comportamento, rappresenta l’approccio comportamentale più conosciuto, nell’ambito dell’educazione delle persone autistiche, i cui principi hanno ispirato il modello d’intervento delineato nel 1960 da Ivar Lovaas, psicologo e professore di psicologia dell’Università di Los Angeles (Roccella, 2019).

Egli, esaminò in primis la diminuzione dei comportamenti disfunzionali attraverso l’intervento comportamentale, infatti questo programma fu pertanto più volte modificato e ridefinito, anche se comunque alle sue spalle si annoverano una lunga serie di sperimentazioni, che ne dimostrò la validità e l’efficacia. Lovaas, dimostrò infatti, l’efficacia della tempestività e dell’intensità degli interventi comunicativi nei processi educativi, tanto da contrapporsi con le teorie del tempo sull’autismo, considerato come un’incapacità genitoriale nella relazione con i figli. Difatti, i presupposti del metodo Lovaas sarebbero riconducibili in dei punti cruciali:

  • i comportamenti delle persone autistiche sarebbero spiegabili attraverso i principi dell’apprendimento umano;
  • la persona autistica presenterebbe molti deficit comportamentali più che un singolo deficit centrale;
  • la persona con autismo potrebbe imparare in un’ambiente adatto a lei (Foxx, 2021).

Questo approccio quindi, adotterebbe nei confronti dell’autismo un particolare punto di vista, considerandolo come un disturbo dell’apprendimento determinato, nel soggetto autistico, da un’attenzione scarsa o poco funzionale, dalla mancanza di imitazione e dalla lentezza ad apprendere.

Il metodo Lovaas, viene definito come un intervento comportamentale precoce e intensivo; precoce perché potrebbe già essere utilizzato prima dell’età dei cinque anni, preferibilmente entro il terzo anno di vita; intensivo perché richiederebbe dalle venti alle quaranta ore settimanali, anche se i risultati migliori si otterrebbero con programmi di almeno trenta ore. La necessità di un inizio precoce si baserebbe sull’ipotesi che vi sia un periodo ottimale durante il quale il cervello del bambino ancora non definitivamente sviluppato, sarebbe flessibile e modificabile. I “luoghi” dell’intervento non sarebbero più solo la clinica o lo studio specialistico, ma la casa, la scuola, tutti contesti di vita del bambino, senza ricorrere a condizioni d’isolamento o ad ambienti lontani da quelli usuali e quotidiani (Faggioli, J.S, 2014).

Per questo intervento inoltre, si ricorre ad una strategia operativa di base, detta “task analysis” o “analisi del comportamento”, cioè nello scomporre una catena comportamentale nelle singole risposte che la compongono, permettendo di scomporre in sotto-obiettivi semplici un compito complesso, dividendosi in tre fasi:

  • una iniziale formulazione dell’obiettivo comportamentale che deve definire in termini osservabili e misurabili il comportamento che l’alunno deve sostenere (utilizzano i “verbi comportamentali”, che descrivono l’azione senza richiedere giudizi di valore), fornire i criteri per tale misurazione (criteri che includono il livello di esecuzione che il comportamento deve avere per essere ritenuto accettabile: limiti di tempo entro i quali deve essere completato, quante volte deve essere ripetuto, ecc) e specificare le condizioni ambientali o e circostanze in cui deve manifestarsi;
  • una scomposizione, elencazione e analisi sistematica di tutte le fasi (comportamenti semplici) che compongono la sequenza che consente l’esecuzione del compito-obiettivo, per impostare poi l’insegnamento in modo graduale. La scomposizione del comportamento è molto importante per non lasciare spazio alla soggettività e rendere l’osservazione e le misurazioni il più oggettive possibili;
  • una misurazione precisa dei comportamenti di base dello studente, cioè del suo livello comportamentale in entrata, affinché l’obiettivo fissato sia sensato e realistico (De Clercq, Peeters, 2012).

L’intervento inizierà insegnando sistematicamente unità di comportamento piccole e misurabili, successivamente procederà grazie alla tecnica del concatenamento, all’insegnamento di unità comportamentali più ampie abilità più complesse, promuovendo in fine la loro generalizzazione. Infatti, di base il meccanismo dell’apprendimento si basa su tre elementi, che costituiscono il così detto “ciclo istituzionale”: stimolo; risposta e conseguenza (Greenspan, Wieder, 2007).

Lo stimolo è una situazione ambientale esterna in grado di determinare una risposta comportamentale, la quale a sua volta genera una conseguenza, cioè un intervento che, se piacevole, funge da “rinforzatore”, portando il soggetto a ripetere e incrementare la risposta stessa, mentre se spiacevole riduce la possibilità che tale risposta venga nuovamente emessa. Infatti, grazie a questa prima discriminazione, si può parlare di rinforzo positivo quando la presentazione di uno stimolo (rinforzatore) avviene in maniera immediata dopo l’emissione di una risposta che determina l’incremento di quel comportamento in condizioni simili; si manifesterebbe un rinforzo negativo quando, la rimozione di uno stimolo aversivo avviene immediatamente dopo l’emissione di una risposta determina l’incremento di quel comportamento in condizioni simili.

Da ciò, si può evincere che, vi siano diversi tipi di rinforzo:

  • primario, ovvero il cibo, bevande ma anche rinforzi sensoriali come il contatto fisico, più indicato nelle prime fasi di insegnamento di un comportamento nuovo;
  • secondario, è rappresentato dal gioco, che invece viene appreso;
  • sociale, come lodi e attenzioni le quali non costituiscono elementi rinforzanti ma lo diventano se vengono costantemente associate a ogni altro rinforzo, potendo così essere utilizzati da soli, anche per stabilire un rapporto tra o studente e l’insegnante (Greenspan, Wieder, 2007).

Gli obiettivi che vengono perseguiti attraverso il metodo ABA si riferiscono all’insegnamento di abilità fondamentali, soprattutto relative all’autonomia personale come mangiare, lavarsi, vestirsi, per passare poi a sviluppare il linguaggio verbale e la comunicazione interpersonale, incrementando il comportamento sociale, promuovendo il gioco cooperativo, diminuendo gli scoppi di rabbia e i comportamenti aggressivi. L’obiettivo finale dell’intervento è il raggiungimento della capacità di apprendere in maniera autonoma dall’interazione con l’ambiente, ma esso può essere perseguito solo attraverso un necessario periodo di controllo (Fava, Valeri & Vicari, 2012).

Il bambino autistico, impara relativamente poco in modo spontaneo dal suo ambiente naturale, ma ciò è dovuto almeno in parte al fatto che egli non osserva bene le persone che lo circondano e quindi non imita non ricorrendo perciò a una delle tecniche di apprendimento più importanti per l’uomo, appunto l’osservazione e l’imitazione. Infine bisogna considerare che, il bambino autistico necessita di un maggior numero di occasioni di apprendimento che spesso l’ambiente naturale non fornisce in quantità sufficiente. Tutte queste difficoltà possono essere superate utilizzando “l’insegnamento senza errori” che si basa sulla convinzione che non possa esserci nessun apprendimento senza la presenza di tre elementi fondamentali: chiarezza; aiuto e conseguenze (Frolli, 2020).

Quindi, l’apprendimento, si svolgerebbe in un ambiente in cui vengono eliminate le distrazioni utilizzando un linguaggio il più semplice possibile, scomponendo le abilità in piccoli “passi” più comprensibili e facili da imparare, insegnandone uno alla volta e utilizzando il rinforzo come mezzo per rafforzare il comportamento futuro. Di fatti, una caratteristica fondamentale che il rinforzo deve assolutamente possedere è l’immediatezza, cioè esso deve sempre seguire immediatamente l’atto che intende rinforzare. Il rinforzo non deve mai venire associato ad altre risposte, ma deve avere sempre una precisa relazione logica e temporale con la risposta che si vuole rinforzare (Roccella, 2019).

Uno dei meriti principali del metodo Lovaas consiste nell’affrontare in maniera specifica e sistematica il problema della generalizzazione, infatti soggetti autistici non generalizzano spontaneamente i loro apprendimenti, senza lasciarlo al caso, ma pianificandolo. L’obiettivo di questo programma è appunto l’uso spontaneo delle abilità in situazioni naturali ma ciò avviene attraverso una serie di tecniche comportamentali che possono essere suddivise in tecniche di “incremento” rivolte alla “costruzione” di comportamenti adeguati e adattivi, tecniche di “decremento”, rivolte alla riduzione e all’eliminazione, di comportamenti ritenuti inappropriati (Giovagnoli, Mazzone, 2020).

Dunque, il modello ABA, come fin qui evidenziato è una metodologia rigorosa che si basa sul comportamento, correlando l’efficacia al campo educativo in quanto, per far sì che tale metodologia possa garantire dei buoni risultati è necessario che in esso interagiscano le famiglie, la scuola e tutto ciò che può girare intorno al bambino, decidendo di co-costruire insieme un percorso caratterizzato da un obiettivo condiviso per realizzare una reale inclusione sociale della persona con autismo.

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L’assessment funzionale e le tecniche di intervento ABA

L’approccio ABA mira in concreto alla programmazione di progetti di intervento, basati sull’analisi e la rilevazione del comportamento disadattivo messo in atto dai bambini autistici, al fine di apportare un cambiamento e l’apprendimento di nuove abilità.

Dato che tale metodologia si basa in assoluto sul concetto del comportamento, esso pone le sue radici su alcuni pilastri teorici della teoria del comportamento: il condizionamento classico di Pavlov, il condizionamento operante di Skinner, la legge dell’effetto di Thorndike, l’observational learning di Bandura e gli esperimenti di Watson sul condizionamento umano con l’affermazione delle teorie del comportamentismo (Volkmar, 2013).

Da queste teorie, si pongono le basi per lo studio del comportamento che porteranno fino ai giorni nostri i loro contributi, che si innestano a sua volta anche nell’approccio ABA, come ad esempio il condizionamento classico pone la basi per i concetti base dello stimolo-risposta (S-R) utilizzati da tale approccio, che coinvolge le risposte riflesse (difensive o consumatorie), dove non viene appreso un nuovo comportamento, ma piuttosto emerge una nuova relazione; oppure il condizionamento operante dove qualsiasi comportamento produce delle conseguenze che a loro volta influenzeranno, aumentando o diminuendo, la futura probabilità di comparsa di quello stesso comportamento in condizioni ambientali simili; o con l’observational learning, dove i comportamenti possono essere “modellati” cioè insegnati attraverso la presentazione di un modello di comportamento dal vivo o attraverso la visione di filmati di rinforzi positivi (Guidetti, 2016).

Da ciò si evince che il metodo ABA, utilizzi delle tecniche di tipo comportamentale come il prompting, il fading, l’imitazione, lo shaping e il chaining (Vivanti, Salomone, 2016).

Il prompting o “tecnica dell’aiuto” è una tecnica che si attua quando il soggetto non possiede un linguaggio ricettivo, può essere efficace insieme alla tecnica dello shaping, che consiste nel dare degli aiuti aggiuntivi come suggerimenti verbali-indicazioni, gestuali-aiuto fisico, detti “stimoli discriminativi”. Il prompting deve essere seguito dall’attenuazione dell’aiuto, una tecnica volta al raggiungimento dall’autonomia del soggetto, per cui gli aiuti e quindi il controllo esterno, vengono gradualmente attenuati, fino a essere eliminati, in maniera tale che il comportamento dipende esclusivamente dagli stimoli naturali presenti nell’ambiente. Consiste nel dare al soggetto un aiuto (prompt) per effettuare un’azione e può essere: verbale, gestuale o fisico. È fondamentale che i prompt vengano gradualmente ridotti attraverso l’utilizzo dal fading fino all’esecuzione in autonomia della competenza (Giovagnoli, Mazzone, 2020).

Il fading o attenuazione dell’aiuto, è invece un cambiamento graduale di uno stimolo (prompt) che controlla una risposta, in modo tale che alla fine, la risposta compaia in seguito ad uno stimolo parzialmente cambiato o completamente nuovo senza prompt. Spesso questa tecnica, risulta un po' difficile da attuare, perché i soggetti autistici hanno spesso un’iper selettività dell’attenzione si agganciano in modo estremo a quelli che sono i dettagli dei prompt. Infatti per adoperare il fading è necessario che si passi da un’indicazione fisica ad una verbale, attenuare l’intensità e l’enfatizzazione di alcuni elementi importanti, diminuire le ripetizioni di parole chiave contenute nelle istruzioni e attenuare e allontanare progressivamente le figure di riferimento per effettuare l’azione. Così, si otterrà un graduale cambiamento nelle abilità del bambino (Martin e Pear, 2000).

Invece il modello dell’imitazione è un vero e proprio apprendimento imitativo, dove la capacità di imitare, però è molto coerente nei soggetti autistici, i quali tuttavia possono apprenderla se viene loro fornito un modello di comportamento da imitare, accompagnato da un prompting, seguito sempre da un rinforzo. Questo processo di modelling però, dipende da tre importanti condizioni:

  • le caratteristiche del modello, cioè il suo status sociale, il prestigio, la rilevanza affettiva ecc.;
  • le caratteristiche dell’osservatore, cioè la sua disponibilità, l’indipendenza e la sua motivazione;
  • le conseguenze, ossia la presenza o meno del rinforzamento.

Ma la capacità di imitare nei soggetti con disturbo autistico sarebbe poco o per nulla presente, dovuta a un deficit del funzionamento dei neuroni specchio. Però per indurla, non sarebbe sufficiente che l’operatore si proponga come modello da imitare, ma deve ricorrere a dei prompt verbali, fisici o gestuali e rinforzare il comportamento imitativo, sottolineando l’importanza che il modello rivestirebbe in termini affettivi e di ruolo (Vivanti, Salomone, 2016).

Diversamente lo shaping o modellaggio, può essere definito come lo sviluppo di un nuovo comportamento attraverso il rinforzo di piccole approssimazioni progressive con l’estinzione di quelle precedenti (Martin e Pear, 2000). Lo shaping è una procedura che viene utilizzata per sviluppare un comportamento che non fa parte del repertorio dell’individuo. Poiché il comportamento è assente, non è possibile aumentarne la frequenza aspettando che si manifesti per poi rinforzarlo. Quindi si inizia rinforzando una risposta che compare seppur raramente e che assomiglia, almeno lontanamente, alla risposta finale desiderata. Solitamente, questa tecnica parte dall’imitazione della specifica azione che si vuole far apprendere, senza la quale il bambino non riuscirà mai a comprendere cosa deve fare per ottenere la sua ricompensa. Ad esempio se si volesse promuovere la produzione verbale, inizialmente si dovrà rinforzare qualsiasi suono emesso, inserendo pian piano un suono ben definito e differenziato, che il bambino dovrà imitare e solo in quel caso verrà rinforzato (Guidetti, 2016).

Il chaining o concatenamento è una strategia finalizzata all’insegnamento di abilità complesse costituite da sequenze di comportamenti. Alcune abilità, vengono strutturate in catene di azioni e non possono essere insegnate tutte insieme, perché risulterebbero troppo complesse, quindi vengono scomposte in sub-unità, proprio per diminuire il prompt sistematicamente. Essa viene utilizzata per l’insegnamento di abilità costruite da più risposte concatenate e tali catene di comportamento vengono composte a loro volta da sequenze di risposte, tutte necessarie per produrre un risultato finale. Ogni risposta alla catena, serve da rinforzo della precedente, ma anche da base per la successiva, così il rinforzo finale manterrebbe l’intera catena di comportamento. Il chaining, con l’aiuto della task analysis, divide il comportamento iniziale nelle sue diverse componenti e poi focalizza l’insegnamento sulle singole micro-risposte in sequenza, attraverso due diverse procedure:

  • il chaining anterogrado, che insegna ordinariamente le singole risposte partendo dalla prima, rinforzandole tutte, fino all’ultima, con cui si raggiunge l’obiettivo comportamentale, seguita dal rinforzo finale;
  • il chaining retrogrado, che parte dall’insegnamento dell’ultima risposta della catena, perché è più vicina al rinforzo finale, si procede, a ritroso, percorrendo ogni volta la porzione di sequenza già appresa finché la serie viene completata e come tutte le altre volte rinforzata.

Il chaining anterogrado e retrogrado, vengono rispettivamente impiegati in situazioni differenti, il primo è adatto al bambino che possiede già le risposte che lo porteranno al comportamento-obiettivo; il secondo invece si rivolge al bambino che non possiede tali comportamenti (Martin e Pear, 2000).

Queste tecniche nel panorama del disturbo dello spettro autistico apportano un netto miglioramento nelle abilità dei bambini e nella vita di ognuno di essi.

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Il metodo ABA e la riduzione dei comportamenti problema

Un altro ambito d’intervento comportamentale ABA è quello riferito alla riduzione dei così detti comportamenti problema, ovvero quei comportamenti autolesionistici e aggressivi, o le stereotipie, spesso presenti nel repertorio comportamentale dei soggetti autistici (Pontis, 2018).

 In un primo momento la ricerca, si concentrò sulla messa a punto di interventi volti a indebolire o estinguere tali comportamenti inappropriati, senza che vi fosse un reale sforzo diretto alla comprensione degli stessi, del loro significato e dei motivi per cui si rappresentano e vengono mantenuti (Guidetti, 2016).

Ma, le tecniche che vennero maggiormente utilizzate per l’eliminazione dei comportamenti problema furono essenzialmente di natura punitiva e furono classificate secondo il loro grado di avversità, in tre livelli:

  • nel primo vengono comprese quelle procedure che non mostrano proprietà avversive o intrusive;
  • nel secondo quelle che presentano un certo grado di restrizione, per la cui attuazione e necessario il permesso dei genitori e delle autorità amministrative dell’ente in cui si opera;
  • nel terzo livello infine i trattamenti molto avversivi o intrusivi, per i quali, in alcuni casi, è necessario anche il permesso del comitato per i diritti umani (Ianes, Cramerotti, 2013).

Con ciò, si prevedeva semplicemente che le procedure più severe venissero adottate unicamente qualora le altre si fossero mostrate insufficienti o inefficienti (Ianes, Cramerotti, 2013).

Recentemente invece, ci si basa sul presupposto fondamentale che il comportamento problematico non sia il risultato di un processo accidentale, ma avrebbe uno scopo, svolgendo una precisa funzione, per la persona che lo manifesta. Quindi, in questo caso non si può procedere alla sua riduzione senza prima fare un’accurata analisi funzionale dello stesso (Carr, Mazzeo, 2013).

Essa consiste nell’ordinare al soggetto di emettere ripetutamente lo stesso comportamento inadeguato, sulla base del principio secondo il quale lo sforzo fisico che implica la sua esecuzione ripetuta avrà un effetto avversivo tale da ridurre il comportamento stesso, in modo da evitare la conseguenza della pratica negativa (Foxx, 2013).

L’estinzione consiste nell’eliminare il rinforzatore che motiva il comportamento inadeguato, il quale pertanto, deve essere ignorato, anche se all’inizio si verificherà un aumento di frequenza, gravità o intensità. Ad esso, verrà inserito il time-out, cioè una procedura di punizione che prevede, come conseguenza di un comportamento non appropriato, la sospensione da qualsiasi agente rinforzante per un periodo di tempo prestabilito (Vivanti, Salomone, 2016).

Le procedure di gestione della crisi non costituiscono una orma di intervento educativo, ma una tempestiva risposta all’imprevedibilità di certe situazioni, che se non gestite opportunamente possono essere una minaccia per coloro che vi sono coinvolti. Esse, servono soltanto a intervenire sulla sicurezza fisica impedendo alle persone disabili di arrecare danno a sé stesse o agli altri.

Infatti, a seconda della gravità delle crisi si potrà:

  1. ignorare, se possibile il comportamento problematico laddove a volte esso non ha conseguenze importanti;
  2. proteggere l’individuo o gli altri dalle conseguenze fisiche del comportamento;
  3. fermare o bloccare momentaneamente la persona;
  4. allontanare dal luogo della crisi le persone che possono essere in pericolo;
  5. introdurre stimoli per l’emissione di comportamenti non problematici (Foxx, 2021).

In casi di particolare emergenza si può persino ricorrere a strumenti di restrizione fisica, proprio per evitare deli danni sia per il soggetto, che per coloro che lo assistono. Tutto ciò, evidenzia come sia particolarmente complesso gestire tali dinamiche ed è essenziale che l’educatore o il personale qualificato, perseguano l’obiettivo dell’insegnamento di comportamenti funzionali che posano agevolare la vita del soggetto interessato, permettendogli di potersi relazionare il più possibile con atteggiamenti funzionali all’interno del contesto relazionale.

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Il DDT come metodo d’apprendimento ad obiettivi

L’acronimo DDT meglio conosciuto come Discrete Trial Training rappresenta uno dei modelli più efficaci fondato sullo sviluppo dell’approccio ABA.

Tale modello venne presentato da Lovaas nel 1987, con lo scopo di potenziare lo sviluppo delle competenze adattive dei bambini, prevedendo che l’ambiente di apprendimento e relazione sia basato sui criteri della ripetitività (Martin e Pear, 2000).

Questo metodo diffuso con tale acronimo, si configura come un metodo che si possa applicare nella relazione diadica, basandosi su un modello di insegnamento strutturato, dove ciascuna seduta viene incentrata su degli obiettivi meta, suddivisi a sua volta in micro-sequenze, alternate da rinforzi continui. Durate tali sedute, saranno previste delle prove dette “trials” a complessità crescente, dove verrà richiesto lo svolgimento di un compito definito “stimolo discriminativo” e verranno esaminate le varie aree del bambino, passando dall’area cognitiva, sociale e all’autonomia, costellate da ripetuti rinforzi, in moda rendere il comportamento appreso (Giovagnoli, Mazzone, 2020).

Una volta presentato il compito, se il bambino non dovesse svolgerlo in maniera corretta, l’educatore lo potrà correggere ripetutamente, fin quando il bambino non risponda in maniera consona allo stimolo discriminativo. Diversamente, se la risposta sia corretta, il bambino verrà rinforzato con l’attività che preferisce o con l’oggetto da lui desiderato. Il compito da svolgere però, sarà caratterizzato da degli intervalli dove si effettuerà il cambio dell’attività, accompagnato dai vari rinforzi, in modo da rendere piacevole e rilassante l’attività proposta (Volkmar, 2020).

Quindi, il modello DDT rappresenta un metodo che derivando dall’approccio ABA e condividendone alcuni presupposti teorici e metodologici come il concetto del rinforzo, rappresenta un metodo che nel tempo ha riscontrato grande utilizzo ed efficacia nel disturbo dello spettro autistico, basandosi sul concetto dell’apprendimento delle competenze in soggetti con bassa funzionalità cognitiva, con la finalità di rendere il soggetto autonomo grazie alla ripetizione incessante delle azioni allo scopo di renderle patrimonio durevole nel soggetto che lo esercita.

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Il programma TEACCH come modello di intervento ad indirizzo evolutivo

La sigla TEACCH è l’acronimo di Treatment and Education of Autistic and Communication Handicapped Children (trattamento ed educazione di bambini con autismo e con handicap nella comunicazione), un programma di stampo cognitivo-comportamentale ad indirizzo evolutivo, iniziato come un progetto di ricerca da Eric Schopler e i suoi collaboratori del dipartimento di Psichiatria della Facoltà di Medicina dell’Università della Carolina del Nord (USA) (Roccella, 2019).

Tale modello di intervento ad indirizzo evolutivo, nasce dall’esigenza di assecondare le esigenze evolutive relative allo sviluppo del soggetto, basandosi sul presupposto che ogni competenza acquisita, sia un prerequisito fondamentale al passaggio della sequenza evolutiva consecutiva (Cottini, 2002).

I principi fondamentali di questo approccio sarebbero:

  • migliorare l’adattamento della persona autistica al suo ambiente, attraverso: l’incremento del livello di abilità individuale, relativo alla comunicazione e all’interazione sociale; la modificazione dell’ambiente in funzione del deficit delle caratteristiche individuali;
  • la valutazione funzionale dell’abilità del bambino;
  • un programma educativo funzionale all’accrescimento delle abilità basato sulle abilità presenti al fine di sviluppare quelle emergenti;
  • la collaborazione con i genitori, che continuano il trattamento anche a casa con le stesse tecniche adottate dai professionisti;
  • un percorso di insegnamento-apprendimento basato sull’educazione strutturata in cui venga utilizzata una strategia che riesca a organizzare gli ambienti educativi e le attività (Watson, et all, 1997).

La finalità che il programma TEACCH si propone, è quella di sviluppare e potenziare tutte quelle abilità nonché punti di forza e di debolezza, che permettono alla persona autistica di migliorare la qualità della propria vita sia relazionale, sociale e lavorativa nel modo più autonomo ed indipendente possibile, adattandosi al proprio ambiente e partecipando concretamente alla vita comunitaria (Micheli, Zacchini, 2006).

La caratteristica che rende il TEACCH diverso dalle altre forme d’intervento è che non chiede al soggetto di modificare il comportamento per adattarsi all’ambiente, ma è l’ambiente che viene modificato per agevolare l’apprendimento in funzione delle sue capacità (Micheli, Zacchini, 2006).

Con questa metodologia, l’ambiente di lavoro viene organizzato in spazi delimitati e differenziati tra loro con specifiche caratteristiche, permettendo al bambino di imparare a prevedere quale sarà l’attività da svolgere. La strutturazione dello spazio, oltre a rassicurare il bambino fa sì che impari a lavorare con crescente autonomia anche se vi sarà una difficoltà per quest’ultimo di concepire il concetto di tempo in quanto esso è astratto (Caretto, Didattista, Scalese, 2012).

Con questo metodo, si ha una strutturazione della giornata attraverso una successione costante di attività con cui il bambino auto-costruisce una propria concezione di tempo basata sull’apprendimento di ciò che fa, che ha fatto e che farà in modo tale che la comunicazione visuale sia più facilmente memorizzabile rispetto a quella verbale (Schopler, Reicher, Lansing, 1991).

È proprio attraverso l’utilizzo di disegni e foto che il bambino infatti costruirà la sua agenda giornaliera che gli permetterà progressivamente di orientarsi autonomamente nello spazio e nel tempo con importanti esiti positivi sulla sua autostima (Roccella, 2019).

Nonostante, la diramazione di tale metodologia, essa non ritrova lo stesso ed ampio fondamento empirico dell’approccio ABA, anche se rappresenterebbe un valevole mezzo di risposta alle esigenze educative dei soggetti autistici, attraverso il modellamento dell’ambiente di apprendimento alle capacità e abilità del bambino.

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Come aiutare i soggetti autistici nella comunicazione verbale

Come evidenziato nel primo capitolo di questo elaborato, tra i deficit annoverati del disturbo autistico, ritroviamo la difficoltà nella comunicazione sociale, evidenziato già dai genitori nelle prima fasi dello sviluppo del linguaggio del bambino.

Tale deficit come delineato, può comprendere diversi livelli di compromissione, dalla comunicazione verbale alla comunicazione non verbale, alla condivisione di simboli convenzionali ai significati delle parole.

Infatti, nel loro sviluppo vi è la mancanza di alcune fasi tipiche della vocalizzazione come mezzo comunicativo, che si manifesterebbero proprio nel periodo della lallazione, cioè quando il bambino inizia ad associare coppie di vocali o consonanti in modo ben definito. In essi, in assenza di linguaggio, mancherebbe anche il corrispettivo gestuale e mimico (Militerni, 2004).

Per tale ragione, attraverso vari metodi e strategie, si è cercato di aiutare questi soggetti ad avere una comunicazione basilare, che li possa aiutare nella vita di tutti i giorni.

Un esempio di metodologia utilizzata è la comunicazione spontanea nell’autismo, dove l’obiettivo è proprio quello di migliorare e favorire l’uso spontaneo della capacità comunicative del soggetto autistico. Anche coloro che presentano delle difficoltà nell’eloquio e che hanno difficoltà nell’apprendimento, possono imparare a comunicare ad uno stadio preverbale o anche non verbale (Micheli, Crippa, 1998).

Per permettere ciò, occorre creare un ambiente che faccia nascere spontaneamente nell’autistico le condizioni e il bisogno di comunicare secondo le modalità di cui è capace.

I sistemi di comunicazione attuabili, sono molteplici e ordinati gerarchicamente in base alla fase di sviluppo in cui il bambino si ritrova. Infatti esse oscillano tra le forme di comunicazione non simbolica come gli atti motori, ad esempio l’azione del soggetto nel condurre un terzo in un luogo per mostrargli o ottenere qualcosa mediante l’utilizzo di gesti e immagini, e all’utilizzo di forme comunicative simboliche costituite dai vari linguaggi sia orali, scritti o gestuali (Zappella, 2005).

Qualora non sia possibile che il bambino sviluppi un linguaggio verbale, è possibile però condurlo verso l’acquisizione di sistemi di comunicazione alternativi anche se questo tipo di comunicazione non è sempre assente, motivo per cui si parla di sistemi di “comunicazione aumentativa alternativa” (CAA) (Cafiero, 2009).

Questo tipo di metodologia comprende tutte quelle tecniche e strumenti innovativi volti ad aumentare e migliorare le abilità e le modalità d’espressione e di comunicazione in soggetti in cui quest’area risulta gravemente compromessa a causa di una difficoltà fisica o intellettiva (Roccella, 2019).

Per comprendere a pieno il significato di tale metodo, occorre spiegare cosa si intende per comunicazione aumentativa e cosa per comunicazione alternativa: la comunicazione aumentativa, è tale nel momento in cui non crea nuove forme comunicative ma cerca di incrementare le potenzialità del soggetto stesso; mentre la comunicazione alternativa utilizza tecniche diverse dal linguaggio parlato. La CAA ha lo scopo di creare opportunità di reale comunicazione e di effettivo coinvolgimento della persona, pertanto essa deve necessariamente essere creata ad hoc per il soggetto al quale è destinato (Cafiero, 2009).

Un altro metodo che ha evidenziato dei buoni esiti riguardanti l’apprendimento-comunicativo, è la metodologia della “comunicazione facilitata”. Esso oggi viene utilizzato sui i bambini con difficoltà espressive e con deficit del controllo motorio, i quali dimostrano però di conoscere il linguaggio scritto (Roccella, 2019).

La caratteristica di questo metodo è la presenza di un professionista nella comunicazione che riveste un ruolo di “facilitatore”, in quanto ha il preciso compito di aiutare il soggetto nel coordinare i movimenti funzionali relativi alla digitazione e all’indicazione (Biklen, 2001).

La difficoltà di comunicazione sarebbe causata da una “disprassia dello sviluppo”, che colpisce le persone con autismo, i quali manifesterebbero una difficoltà ad ordinare in sequenza le parole di una frase, con senso logico, evidenziando anche delle difficoltà nel movimento nell’indicare o nello scrivere ciò che vogliono comunicare (Zappella, 2005).

Per tale motivo, la comunicazione facilitata, prevede l’utilizzo di vari strumenti, scelti in relazione al contesto di riferimento e alle abilità del bambino. Difatti, una delle modalità maggior mente utilizzata è la comunicazione attraverso una tastiera di carta con dei disegni, delle parole o delle lettere, che vengano rispettivamente indicate dal soggetto e verbalizzate dal facilitatore, anche se molto spesso si ha il supporto del computer, proprio per facilitare l’esposizione, dando la possibilità di confrontarsi ed imparare ad utilizzare i mezzi tecnologici a lui più consoni per relazionarsi (Biklen, 2001).

Pertanto, i soggetti autistici avendo delle carenze dal punto di vista comunicativo, è importante che venga effettuata una diagnosi precoce, in modo da poter agire rapidamente sullo sviluppo delle abilità linguistiche e relazionali del bambino, solo in questo modo lo si potrà aiutare a facilitare la relazione con gli altri e a partecipare alla vita della comunità.

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Il sistema multidisciplinare SCERTS- Social Communication Emotional Regulation Transactional Support

Il modello SCERTS (Social Communication, Emotional Regulation, Transactional Support) conosciuto anche come modello di comunicazione sociale, regolazione emozionale e sostegno transazionale, è un approccio pedagogico globale e multidisciplinare fondato sull’organizzazione del contesto scolastico che si differenzia in base alle caratteristiche degli stili d’apprendimento dell’allievo ASD e che mira al potenziamento della comunicazione, delle abilità sociali ed emotive dei soggetti con disturbo autistico con una presa in carico del bambino nella sua interezza e nei suoi contesti di vita quotidiani (Prizant et all, 2006).

Questo approccio viene strutturato in risposta ai BES, ovvero Bisogni Educativi Specifici, di ogni alunno che presentano deficit della cognizione e di autoregolazione emotiva ed inoltre è considerato come un potenziamento contestuale dell’ambiente educativo creato ad hoc per lui.

Esso fa riferimento a tre dimensioni evolutive primarie ovvero la comunicazione sociale (SC)e la regolazione emotiva (ER) che mirano ad indirizzare le risposte educative verso la compensazione delle problematiche dell’autistico, e il successo transazionale (TS) che ha lo scopo di incentivare l’apprendimento di nuove modalità di organizzazione del sostegno comunicativo da parte dei coetanei, dei genitori e degli educatori (Foxx, 2021).

Nello specifico analizzando le singole dimensioni, si riscontrano delle peculiarità, infatti Prizant e collaboratori (Prizant et all, 2020) evidenziarono:

  • la comunicazione sociale: in quest’area si ritrovano tutti quegli interventi finalizzati all’acquisizione delle competenze comunicative essenziali alla comprensione delle istanze ambientali e sono definite essenziali in quanto preannunciano lo sviluppo di capacità di autonomia personale. Questa comunicazione si basa su di una continua ripetizione di sequenze interattive tra educatore ed allievo fondate sull’utilizzo dei 64 codici simbolici per la comunicazione, in grado di favorire la nascita di esperienze condivise dell’attenzione realizzata su una serie di step ben individuati, anche se possono essere introdotte successivamente dei nuovi simboli e nuove conoscenze, svolte nei contesti naturali come la scuola, permettendo così uno sviluppo delle competenze sociali di base.
  • L’Autoregolazione emotiva: in quest’area si ritrovano tutti quegli interventi finalizzati all’acquisizione e al riequilibrio dei deficit di regolazione dell’attivazione emotiva insite anche nella relazione con l’ambiente. Alcuni dei deficit che sono presenti in tale disturbo sono i comportamenti disadattivi, in particolare le stereotipie, i comportamenti autolesionisti. Come precedentemente evidenziato, le esperienze dei codici simbolici di base, permetterebbero il miglioramento delle competenze comunicative e la possibilità di porre il soggetto in condizione di chiedere sostegno in momenti di difficoltà, favorendo l’autoregolazione emotiva e solo così, il bambino sarà capace di allontanare i comportamenti disadattivi. Il sistema SCERTS, dunque similarmente al modello ABA, evidenziano l’importanza della compensazione dei deficit sopra indicati per mezzo dei codici simbolici ed anche attraverso tecnologie assistite dai sistemi di comunicazione aumentativa alternativa. In definitiva, si può affermare che l’influenza dell’ambiente attraverso i simboli comunicativi è l’elemento base per l’incremento dell’autoregolazione emotiva nei soggetti autistici.
  • Il Sostegno transazionale: questa specifica del sistema SCERTS, evidenzia come il contesto di vita di tali soggetti possa essere potenziato tramite l’apprendimento di queste modalità di sostegno sia ai genitori che ai compagni che a tutti coloro che si relazionino con questi bambini speciali. Infatti, è fondamentale che si crei un vero e proprio team multidisciplinare, che coordini le azioni dei professionisti a sostegno del bambino, che tenendo sempre presente i bisogni educativi speciali dell’alunno lo direzionino nell’ambiente educativo, dando anche delle basi su come intervenire in casi di crisi del soggetto. Un altro aspetto rilevante è il coinvolgimento attivo dei familiari nell’intervento educativo all’interno dell’ambiente domestico, infatti è importante che si attivi una vera e propria mediazione, in modo da poter influenzare e potenziare gli interventi educativi, rendendo il soggetto più sicuro e sostenuto. Altrettanto importante è l’interazione e il supporto dei coetanei, i quali essi sono la base con cuoi il soggetto si sente coinvolto e incluso sia nel contesto sociale che nel contesto comunitario, dando così la possibilità al soggetto autistico di sentirsi autonomo e competente anche nell’approccio con gli altri, chiedendo aiuto anche con un gesto o un simbolo che potesse far capire il suo disagio. Ma all’interno del contesto classe, le situazioni che possano portare disagio al bambino sono molteplici, ad esempio l’eccessivo affollamento o rumore, possono portare alla manifestazione di crisi oppure a scatti di nervosismo, ma per evitare tali comportamenti gli educatori insieme al team, aiuteranno a potenziare le capacità di autoregolazione emotiva per far sì che esso possa in autonomia gestire e uscire dalla crisi, oppure segnalare tramite i codici condivisi con i compagni la sua necessità, accrescendo sempre più il sistema di comunicazione aumentativa alternativa (Prizant et all, 2020).

Dunque, da come evidenziato nei precedenti punti, il sistema SCERTS, si applica nella totalità del soggetto, cercando di rendere il bambino il più possibile autonomo, che abbia delle competenze nella comunicazione sociale attraverso la condivisione di codici condivisi, che riesca ad equilibrare i deficit di regolazione dell’attivazione emotiva cercando di autoregolarsi e che soprattutto dia la base al sostegno sia alla famiglia che al bambino stesso, dando la possibilità di recepire e di capire meglio il mondo che lo circonda.

In conclusione, questo metodo pedagogico multidisciplinare, permette ad ampio spettro di dar un fondamento concreto sia per i soggetti con spettro autistico, ma anche per tutti i soggetti che si trovano nella fase dello sviluppo evolutivo. Pertanto, il percorso deve essere co-costruito al fine di promuovere un progetto di vita che li possa accompagnare nelle varie difficoltà, accompagnandoli e sostenendoli nella costante ricerca dell’autonomia personale.

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Conclusioni

L’obiettivo di questo elaborato è stato quello di approfondire e far conoscere sempre più la tematica dell’autismo, in quanto al giorno d’oggi, questo disturbo viene sempre più diagnosticato in modo repentino e frequente.

Il mondo dell’autismo, sin dalla sua “scoperta” ha sempre destato paura e grande senso di sconforto all’interno della famiglia e della società, celandosi ancora oggi questo alone di diffidenza, smarrimento, mancata accettazione e pregiudizio.

Nonostante tutto, con il passare del tempo, si sta cercando sempre più di estinguere tali pregiudizi in nome dell’inclusione e della valorizzazione dei soggetti con ASD.

Sebbene tale disturbo comporti dei deficit abbastanza significativi, questo non preclude l’autonomia di tali soggetti, che, se adeguatamente sostenuti, motivati e incentivati, affiancati dall’utilizzo dei metodi sopra delineati, presentano dei miglioramenti, sia dal punto di vista dell’evoluzione della vita quotidiana che di quella relazionale.

Infatti, altro elemento essenziale sia nel lavoro diretto che nella diagnosi, come si è evidenziato nell’elaborato, è l’utilizzo dell’osservazione, come strumento o chiave di lettura utile alla scoperta e alla comprensione dei comportamenti, dei bisogni e delle reazioni emotive del mondo autistico.

Per far sì che tutto questo avvenga, è sostanziale che si co-costruisca un percorso educativo tramite l’utilizzo di modelli idonei al soggetto, creando una vera e propria alleanza tra bambino ed educatore, tale da permettere la creazione di un ambiente di apprendimento che rispetti, integri e sia funzionale alla crescita della persona lungo tutto l’arco di vita e nei contesti in cui potrà sentirsi libero di muoversi in autonomia.

In conclusione, è fondamentale che l’educatore guidi i bambini  affetti da spettro autistico in quanto persone con diritti esercitabili a priori dalle loro condizioni e non come soli individui con autismo, sostenendoli e dando loro la base per trasformare anche l’esperienza educativa in esperienza umana, al fine di promuovere un progetto di vita modellato sulla persona, sorretta nel cammino dell’autodeterminazione e nel potenziamento delle abilità residue ed emergenti del soggetto coinvolto.

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